Promuovo anch’io? No, tu no.
Nell’Olimpo della politica agricola europea Dioniso torna ad essere discriminato. Colpa di un post-pandemia che prescrive di ostentare serietà e sobrietà.
Un atteggiamento che condiziona chi deve definire gli interventi da inserire nella Pac post 2022 per raggiungere gli obiettivi (ambiziosi) di neutralità climatica, inclusività dei processi produttivi, tutela della biodiversità, sicurezza alimentare.
Editoriale del numero 6/2021 di VVQ
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La spada di Damocle dell'alcol
Ambiti in cui la viticoltura avrebbe, a dire il vero, importanti carte da giocare, ma sulla testa del nostro settore preferito pende la solita spada di Damocle. Superata la fase acuta dell’emergenza pandemica l’alcol è tornato al centro del mirino.
Non è più visto come l’ingrediente utile per formulare gel disinfettanti, anzi: il piano europeo di lotta al cancro l’ha messo all’indice, rinfocolando tentazioni proibizioniste mai sopite nei Paesi Nordeuropei (dove l’approccio sociale tutto mediterraneo del bere vino con moderazione e in compagnia viene spesso male interpretato).
Il motore del boom dell'export
A farne le spese potrebbe essere l’Ocm e la promozione sui mercati extra Ue, ovvero quella che, da due programmazioni Pac a questa parte, è la misura d’eccellenza per gli operatori del settore vino, il motore che ha alimentato la corsa dell’export registrata negli ultimi anni.
L'aggravante delle etichette dissuasive
La rimodulazione dei sostegni procurerebbe ai produttori italiani un danno diretto di circa 100 milioni di euro l’anno oltre a guasti indiretti, d’immagine e di sostanza, decisamente maggiori. Aggravati dall’obbligo di apporre sulle bottiglie un’etichettatura salutistica dissuasiva a fianco dell’altra sgradita novità, ovvero quella della tabella degli ingredienti del vino.
Una repentina scomunica che farebbe precipitare in un solo istante il vino dall’empireo delle eccellenze agroalimentari da difendere all’ade dei vizi da correggere.
Tempesta perfetta sulla governance del vino
Una tempesta perfetta che rischia di avere conseguenze non solo economiche ma anche politiche, innescando una profonda crisi nella governance del vino italiano.
«Servono più fondi per la promozione». È questa infatti la richiesta che negli ultimi anni è più riecheggiata nelle riunioni di filiera, una formula universale proposta per risolvere tutti i mali: dalla crisi dei dazi, all’emergenza climatica, fino a quella pandemica.
Una semplificazione giustificata dall’incisività di una misura che ha saputo stimolare sinergie aziendali e territoriali consentendo alle maggiori realtà dell’enologia nazionale di condividere obiettivi comuni che altrove sono venuti meno.
Quello del vino è infatti un comparto peculiare, con un sistema di rappresentanza caratterizzato dal record del numero di organizzazioni professionali che però stanno progressivamente perdendo la possibilità di incidere sui temi “che contano”: qualità, tipicità, sostenibilità, innovazione, autotutela.
Vitigni in fuga
Basti pensare alla frattura tra vitigno e denominazione imposta da Bruxelles in nome della libera concorrenza e che sta creando, salvo pochi fortunati casi, sempre maggiori difficoltà nel difendere la tipicità delle produzioni territoriali all’interno dei Consorzi di tutela.
Sostenibilità, da opportunità a vincolo stringente?
Oppure alla parabola del sistema nazionale di certificazione della sostenibilità che sarà governato da un comitato, appena nominato, da cui sono esclusi i produttori. L’obiettivo principale sarà quello di valutare le performance del sistema produttivo nell’ambito degli obiettivi imposti dal “Farm to Fork” alzando l’asticella delle performance sociali e ambientali con il rischio di rendere questo strumento più un vincolo che un’opportunità per valorizzare quello che di buono e sostenibile stanno facendo le cantine italiane.
Una continua sottrazione di obiettivi comuni e di leve per realizzarli che rischia di generare una vera crisi di autogoverno. Stimolando la naturale tendenza del vino verso l’anarchia.