Più ricerca & sviluppo per tutti!
La politica, anche quella locale, si fa sempre più spesso con gli annunci.
E uno dei messaggi lanciati con maggiore clamore in questo periodo in molti territori italiani è quello del lancio di progetti di Ricerca e Sviluppo per risolvere i problemi di competitività, occupazione e reddito. Una soluzione che sarebbe certamente auspicabile, ma che viene troppo spesso agitata come un vessillo (o una clava), senza però poi dar seguito ad azioni concrete.
Di fatto la spesa pubblica per la ricerca in Italia è infatti ferma al misero 1,39% del Pil, contro una media europea del 2% e punte di oltre 3% in Germania e Danimarca. Tuttavia, dalle recenti valutazioni delle attività di ricerca emerge, nonostante i pochi fondi a disposizione e soprattutto la loro marcata aleatorietà, che i ricercatori italiani sono piuttosto bravi, soprattutto quelli che operano nel settore vitivinicolo.
Al terzo posto come numero di articoli scientifici
Senza entrare nel merito dei meccanismi di valutazione della ricerca scientifica da alcuni anni in uso nel mondo, ovvero su base bibliometrica (Scopus), due recenti indagini eseguite a livello sia nazionale (Italus Hortus 25, 2018) che internazionale (Australian Journal of Grape and Wine Research 26, 2020) mettono in evidenza quanto sopra affermato.
In sintesi: in Italia nel quinquennio 2013-2017, su ben 1.594 pubblicazioni scientifiche prodotte ed inerenti l’intero settore frutticolo, il 26% hanno riguardato la vite, seguono drupacee con l’11%, olivo con il 10%, pomacee con il 7%, ecc. (a rimarcare l’importanza del settore nel comparto agroalimentare nazionale).
Nel mondo nel periodo 2013-2017 sono stati invece pubblicati ben 36.536 lavori riguardanti il comparto “vite-vino”; l’Italia con 4.722 articoli prodotti si colloca al 3° posto, dopo USA con 5.423 lavori e Spagna con 5.574 lavori. Seguono Francia (3.572), Cina (3.322), Australia (1.960), Germania (1.762), Brasile (1.671) ecc. (per approfondimenti vedi: "La misura della scienza" Biondi Bartolini 2020, VVQ 8: 40-45).
È interessante notare come, non a caso, tra gli enti finanziatori che hanno permesso tali successi, in ordine di importanza, compaiono: National Natural Science Foundation of China, Governo australiano; i fondi europei di sviluppo regionale, il Consiglio nazionale brasiliano per la ricerca, il Governo spagnolo, l’Unione europea.
Cina, Australia, Brasile e Spagna: i fantastici quattro
Cina, Australia, Brasile e Spagna sono intervenuti in modo pesante e strutturale influendo positivamente sui risultati finali (gli esempi positivi dovrebbero essere illuminanti).
In un settore che, a livello globale, produce oltre 300 miliardi di dollari l’anno e nel quale i nuovi Paesi entrano, sia come consumatori che come produttori, forse è arrivato il momento di rendere la ricerca maggiormente stabile e concreta. Manca di fatto una visione progettuale di lungo respiro; da noi i progetti finanziati spesso sono annuali, talvolta biennali, raramente triennali.
Progetti di corto respiro
Di fronte a governi sia nazionali che regionali che non reggono, la non programmazione di lungo termine regna sovrana e fa danni, soprattutto nel lungo periodo. Troppo spesso le professionalità acquisite con impegno e sacrifici (ricercatori a tempo determinato, dottori di ricerca, assegnisti, borsisti, ecc.) si perdono oppure ancora più grave vengono acquisiti da Università e centri di ricerca stranieri. A titolo di esempio nel settore vitivinicolo attualmente vi sono oltre 10 colleghi italiani che lavorano negli USA.
Cervelli in fuga
L’ottima preparazione dei ricercatori italiani, abbinata ad una scarsa capacità di trattenimento di questi cervelli da parte delle nostre istituzioni scientifiche, è confermata anche dal fatto che dei numerosi ricercatori che si aggiudicano sia le Starting Grant (riservate ai giovani che hanno un dottorato da 2-7 anni con borse che arrivano fino ad 1,5 milioni di euro) che le Consolidator Grant (655 milioni di euro riservate ai dottori di ricerca da oltre 7 anni) solo una minima parte scelgono di operare in Italia.
Infatti, l’European Research Council (ERC) che assegna questi Grant da parte dell’UE, certifica che negli ultimi 5 anni il saldo tra i vincitori italiani e quelli che hanno scelto di operare in istituzioni non italiane è fortemente negativo. In sostanza abbiamo perso una media di 23 Starting Grant l’anno, che corrisponde ad una quota variabile dal 50 al 60% delle borse vinte annualmente dagli italiani.
Nello specifico, nel 2020 dei 3.272 progetti presentati ne sono stati finanziati il 13% circa, ovvero 436 di cui ben 53 vinti da ricercatori italiani (secondi in Europa, solo dietro la Germania). Tuttavia, siamo scivolati al 10 posto nel ranking europeo, perché ben 33 di questi vincitori hanno scelto di operare in paesi diversi dall’Italia.
Inutile dirlo, il paese che vince poco, ma che attira cervelli è l’Inghilterra, poiché, nonostante la Brexit, ha un saldo pari a +36 (a fronte di sole 26 borse vinte dai ricercatori inglesi); seguono i Paesi Bassi con +19, la Svizzera con +24, la Francia è stabile, mentre perdono la Spagna (-18% delle borse vinte dai suoi ricercatori) e la Germania con -14%. In realtà alcuni tentativi per frenare questo trend negativo sono stati messi in atto di recente, esempio il bando ministeriale “FARE Ricerca in Italia” con finanziamenti aggiuntivi (fino al 20%) agli ERC grantee che rimangono a lavorare in Italia. Ma evidentemente non basta.
I motivi della debacle
I motivi di questa triste debacle sono sempre gli stessi:
- mancanza di finanziamenti;
- troppa burocrazia;
- sistema poco flessibile per carriere e stipendi;
- mancanza di strutture adeguate;
- poca serietà accademica;
- carenza di grant office (professionisti che preparano e seguono i candidati a vincere i bandi sia nazionali che internazionali).
Altra debacle, specie in alcuni settori, viene fuori dalla recente 2% Top Scientist in the World (2019) pubblicato su PLOS Biology (2020), ove sono stati standardizzati i parametri bibliometrici e messi a confronto, su base meritoria, tutti i ricercatori operanti nelle strutture di ricerca del pianeta indipendentemente dall’appartenenza, creando un ranking nel quale compaiono i migliori 2%.
Alcuni settori sono risultati fortemente penalizzati, ma di ciò ne parleremo in uno dei prossimi editoriali. Si spera tuttavia che queste evidenze meritorie non passino inosservate e che invece possano essere, almeno in parte, considerate sia per l’assunzione dei giovani sia per gli avanzamenti di carriera (pena affossare definitivamente il concetto di merito e quindi il futuro dell’Italia).
Alberto Palliotti
Università di Perugia
(alberto.palliotti@unipg.it)