Mille bolle blu che evaporano leggere da cantine italiane sempre più effervescenti.
L’Italia sta diventando il Paese delle bollicine, con spumanti metodo classico prodotti ormai lungo tutta la penisola, anche in territori finora poco considerati. I puristi storcono il naso: nel Belpaese i pregiudizi sulle rifermentazioni resistono inscalfibili nonostante il successo e gli apprezzamenti internazionali.
Il venticello della calunnia le accusa, in ordine sparso, di non essere vini, di non essere tipiche, di non marcare il territorio, di essere semplici, di essere adatte solo ad un pubblico di degustatori giovani e inesperti, incapaci di apprezzare la complessità dei grandi rossi invecchiati.
Il semplice non è facile
Uno snobismo che in enologia si paga sempre a caro prezzo. L’errore più comune per gli esperti è infatti quello di pensare che il semplice sia facile, il complesso difficile. Molto spesso è vero il contrario. La rinascita dell’enologia del Trentino è, per esempio, tutta sulle spalle del Trentodoc. La prima storica denominazione italiana legata ad uno spumante ha in realtà una tradizione assai recente. Prima degli inizi del ‘900 e di Giulio Ferrari qui si bevevano solo rossi leggeri ricavati dalla Schiava.
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Attrazione Trentodoc
A fine settembre la Provincia autonoma è stata invece la meta più ambita dell’enoturismo internazionale per la seconda edizione del Festival che celebra le “bollicine di montagna”. Un mito che vanta precise basi scientifiche.
Nel corso dell’evento Fulvio Mattivi e Silvia Carlin della Fondazione Edmund Mach hanno infatti raccontato le evoluzioni del progetto di ricerca, pubblicato nel 2017 su Food Chemistry e sostenuto da Fondazione Ager, che ha caratterizzato la frazione volatile del Trentodoc attraverso la metabolomica.
Un mare di aromi
La tecnica analitica d’avanguardia applicata nei laboratori di San Michele all’Adige, basata su microestrazione in fase solida e gascromatografia bidimensionale accoppiata a spettrometria di massa, ha individuato, in 47 campioni di diverse annate provenienti da 37 cantine del Trentodoc, la bellezza di 1.695 diversi composti, di cui solo 200 noti (i rimanenti sono tutti da caratterizzare).
969 di queste sostanze volatili costituiscono una matrice aromatica comune presente in almeno il 60% dei vini territoriali mentre 726 possono rivelare l’identità aziendale, legate a fattori come cultivar, vinificazione, lieviti, liquore di dosaggio, legno.
Un’incredibile complessità aromatica che deriva dalla lunga filiera di lavorazione del metodo classico, dalla ricerca della qualità e dalla scelta della giusta (e precoce) maturazione delle uve in vigneto, che porta a un pH estremo che ne esalta il potenziale evolutivo. Un intreccio il cui rispetto rappresenta una sfida che forse può limitare il contributo dell’enologo (soprattutto in una denominazione come quella trentina che fissa precisi standard riguardo alla permanenza sur lies e ai limiti per il dosaggio).
Un bouquet che, prove alla mano, risulta più ampio rispetto a quello delle nobili riserve di celebrati vini rossi (la cui complessità è invece soprattutto gustativa) e che mette alla berlina i pregiudizi di critici e supertester in grado forse di ravvisare solo una ventina tra i descrittori scoperti da Mattivi e Carlin.
Individuare l’area di produzione
E non è tutto: il confronto con 23 campioni di Franciacorta ottenuti nelle stesse annate ha consentito di individuare 196 composti in grado di caratterizzare l’area di produzione.
Aromi prefermentativi che derivano dalle diverse prassi riguardo a pressatura e diraspatura, aromi secondari legati all’impostazione delle fermentazioni, ma soprattutto aromi primari come terpenoidi, la cui concentrazione è decisamente superiore nei vini ottenuti dalle uve di montagna. Un effetto legato all’altitudine, all’escursione termica e all’epoca più tardiva di vendemmia che premia i metodo classico del Trentino.
Il potenziale evolutivo
Oltre alla variabile spazio le bollicine sono però sensibili anche a quella temporale. Dentro il Trentodoc emerge infatti con forza la grande differenza tra i prodotti giovani e le riserve (ad esempio per la maturazione di norisoprenoidi ed esteri). Confermando un aspetto molto importante: ossia che le uve utilizzate hanno un grande potenziale aromatico che si libera nel lungo affinamento.
La sfida della metabolomica diventa così ora quella di mettere a punto metodi affidabili per stimare il potenziale evolutivo dei vini base giovani prima di fare cuvée destinate al tiraggio. Un aspetto cruciale in un’epoca di estrema variabilità climatica.
Esperienze che rivalutano la tipicità delle bollicine ma che alzano l’asticella per i nuovi territori. Che per emergere dovranno fare i conti con questa capacità tutta trentina di unire produzione e ricerca, esperienza e competenza.
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