Più fiducia nel breeding e nei resistenti
Il video dell’intervento di Riccardo Velasco su VignetoInnova
Nuovi vitigni, vecchi problemi.
Gli esperti di marketing lo sanno: il nome è uno degli ingredienti più importanti per il successo di un prodotto. E questo vale ancora di più per i vitigni resistenti, impropriamente chiamati ibridi resistenti.
“Ibridi”: una definizione sbagliata
Una definizione sfortunata che richiama i fallimenti degli ibridi produttori diretti del diciannovesimo secolo. Questi vitigni, il cui DNA è prevalentemente di Vitis vinifera, la vite coltivata europea, benché “contaminato” da piccole frazioni di genoma delle viti selvatiche americane o asiatiche resistenti a malattie fungine come oidio e peronospora, hanno avuto vita dura prima di essere presi in considerazione da autorevoli esperti viticoli e rinomati enologi.
Nomen omen
Su queste pagine abbiamo già affrontato questo tema, con un editoriale di Lorenzo Tosi che ha aperto un confronto tra autorevoli accademici come Cesare Intrieri, Riccardo Velasco, Raffaele Testolin.
Leggi per approfondire
- Nome e cognome per i vitigni resistenti
- Vitigni figli da non ripudiare
- Achille è famoso per il “piè veloce”, non per il nome del padre
- Nomen omen
Il confronto si riaccende sui resistenti
Un confronto che si accende di nuovo grazie ad un articolo pubblicato su “Rivista di Frutticoltura” (“Vitigni resistenti alle malattie: opportunità produttive, ma c’è l’equivoco dei nomi” di Cesare Intrieri, Rosario Di Lorenzo, Riccardo Velasco, Frutticoltura 1/2021).
L’elemento in più
C’è però un elemento in più. Come mette in evidenza proprio Velasco:
«Se un vitigno resistente possiede caratteristiche qualitative che richiamano il genitore nobile perché non dovrebbe richiamarne l’origine anche nel nome?»
«Se invece è qualcosa di decisamente diverso, con quale arrogante pretesa dovrebbe imporsi con un nome che non merita?»
«La metabolomica – mette in evidenza il direttore del Crea Ve - ci viene in aiuto. Se stabiliamo, a livello internazionale, con competenti enologi, soglie di appartenenza secondo le quali un vitigno può o non può richiamare nel suo nome il genitore nobile, sanciamo così il rispetto di un diritto e contemporaneamente si evita ad un “usurpatore” che a quella famiglia, per esempio riconducibile ai Cabernet (Sauvignon, Franc e affini), non appartiene».
Una posizione rafforzata dalla recente pubblicazione di una ricerca (Metabolite profiling of wines made from disease-tolerant varieties, Caratterizzazione dei metaboliti dei vini ottenuti da varietà resistenti alle malattie, Silvia Ruocco et al.) che ha dimostrato che quelli che erano considerati i principali problemi di queste varietà in realtà non lo sono e aprendo la possibilità di valorizzare le caratteristiche di questi vitigni anche per la produzione di vini di alta qualità.
Vitigni resistenti: essere o non essere?
Un’acquisizione che spinge Velasco a concentrarsi sul cuore del problema: «l’essere o non essere (di un vitigno come, proseguendo ad esempio il Cabernet) è dato dal nome o dalla identità (definita dal profilo metabolico), ovvero dalla forma o dalla sostanza (definita da metaboliti caratteristici)? La risposta ce la possono dare solo adeguati laboratori attrezzati con i migliori strumenti metabolomici che ci possono dire se l’uva di un vitigno resistente, magari figlio di Sangiovese, può contribuire, o no, ad ottenere un Chianti Classico che, nel suo disciplinare della Dop, tollera un 20% di altre varietà, a patto che ne mantengano le caratteristiche principali».
Riciccia la polemica sul nome dei vitigni resistenti.
La risposta l'ha data già Riccardo Velasco, direttore del Direttore Crea - Viticoltura ed Enologia su #VignetoInnova :