Nomen omen

Riccardo Velasco, Direttore del Centro di Ricerca in Viticoltura ed Enologia, CREA
Dare il nome è il primo passo per definire l'identità (e il destino) di una varietà. «Perché allora avere paura di mantenere la chiara indicazione della linea genetica di un nuovo vitigno ottenuto da un incrocio tra un autoctono ed un resistente, a sua volta ottenuto da lunghi reincroci con Vitis vinifera di alto lignaggio per diverse generazioni? L'intervento di Riccardo Velasco, Direttore del Centro di Ricerca in Viticoltura ed Enologia, CREA

Nomen omen ovvero "il nome è un presagio", "un nome un destino", o nella alternativa forma conveniunt rebus nomina saepe suis (spesso i nomi sono appropriati alle cose cui appartengono) da De Paulino et Polla di Richardus Venusinus (1228-1267) ci aiutano a sottolineare quanto sia importante il nome che diamo a qualcuno o a qualcosa.

"Nominare" le cose non è un gioco, ma un riconoscimento dato al soggetto stesso che si nomina: “Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti li uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome: Così l'uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche (Genesi, 2, 19-20)”.

Gli interventi precedenti:

L'ira funesta

Tuttavia, senza scomodare i sacri testi o nobili lingue morte, si può ben immaginare l’importanza di un nome per spiegare l’essenza di qualcosa ed il suo valore, la sua storia, come direbbe oggi un abile consulente pubblicitario.

Certo, la tradizione, la cultura di un luogo ed i prodotti che la definiscono sono argomenti validi nella “gelosa” protezione del nome, dell’identità.

Timori infondati

È anche di questo, o forse prevalentemente di questo che si parla oggi, quando si teme di confondere il consumatore, di privare una cultura delle sue tradizioni, spostandole in altri luoghi che di quella cultura non hanno la benchè minima idea.

Per quanto i cambiamenti climatici ci spaventino, difficilmente le colture mediterranee si sposteranno di centinaia o migliaia di chilometri a Nord, o si sposteranno di centinaia di metri di altitudine, almeno non nel nostro tempo, non per decine e decine di generazioni.

Portare un Sangiovese o un Primitivo a Nord delle Alpi è quantomeno improbabile, ma lo è anche portarci un figlio di Sangiovese o di un Primitivo che abbia le principali caratteristiche della pianta madre. Io, di questo, non ho paura. Il miglioramento genetico nella vite può serenamente produrre novità, piante più robuste, più resistenti alle avversità ed alle malattie, ma se saranno selezionate nelle stesse regioni del genitore nobile saranno selezionate le più simili a questo, e come il genitore nobile saranno “autoctone”, poco adatte a climi lontani tanto quanto il genitore nobile, nessun dubbio. Certo, se alcune piante figlie dello stesso incrocio saranno selezionate in luoghi lontani potranno dare risultati interessanti ma niente a che vedere col genitore nobile o con le piante sorelle selezionate sulle sponde del Mediterraneo. È la logica del miglioramento genetico e della selezione.

Perché allora avere paura di mantenere nel nuovo nome la linea genetica, o più nobilmente parlando, il lignaggio di un nuovo vitigno ottenuto da un incrocio tra un vitigno autoctono (leggi Sangiovese, ma anche Primitivo, Glera, Nero d’Avola, Falanghina, Nebbiolo, Cesanese, etc) ed un vitigno resistente alle malattie, a sua volta ottenuto da lunghi reincroci con Vitis vinifera di alto lignaggio per diverse generazioni, selezionando ogni generazione i figli migliori ma resistenti alle malattie?

Errore “blu” chiamarli ibridi

Molte generazioni fa, al primo incrocio tra Vitis vinifera e una vite americana o asiatica, si chiamavano giustamente “ibridi produttori diretti”. Ma oggi, a distanza di 6-8 o anche più re-incroci con vinifera (ogni volta introducendo nel pedigree Merlot, Grenache, Cabernet, Chardonnay, Pinot ed altri vitigni nobili), che senso ha continuare a chiamarli ibridi e temere che nel nuovo vitigno si usi un nome composto che ricordi l’ultimo genitore nobile utilizzato nell’ultima generazione di incrocio?

Ibrido, nella definizione genetica stretta, è l’incrocio tra individui di due specie diverse. Negli animali quasi sempre sterile. Nel mondo vegetale una maggiore plasticità consente di ottenere piante ancora fertili, utilizzabili in ulteriori incroci (o re-incroci con il genitore nobile avvicinandosi al 99% del suo patrimonio genetico dopo 8-9 generazioni), che hanno portato all’ottenimento delle varietà iscritte finalmente nel catalogo nazionale, anche se con qualche distinguo a mio parere del tutto ingiustificato.

Il diritto e l’orgoglio d’origine

Tornando al nome composto, trovo che sia doveroso mantenerlo, per quanti timori possa generare confusione nel consumatore (molto inesperto oserei dire) che possa confondere il Cabernet Sauvignon (orgogliosamente figlio di Cabernet Franc e Sauvignon Blanc) con un più recente Cabernet Cortis. Ed escluderei a priori che un viticoltore possa incorrere in un errore del genere, in caso meglio cambiare mestiere.

Che sia il primo nome (Cabernet Cortis, Merlot Khorus, etc) o nel patronimico è da verificare visto che nessuno ci ha ancora provato, ma più che un diritto un dovere, anche a protezione dell’origine e della tradizione di un nuovo vitigno, prodotto dalla fatica e merito di coloro che, in una regione dove quel vitigno è considerato autoctono, hanno avuto la volontà ed il coraggio di gettare il cuore oltre l’ostacolo nella ricerca di una soluzione ecosostenibile che conservi le caratteristiche migliori del vitigno originario di un luogo in grado però di difendersi almeno in parte coi propri mezzi biologici, piuttosto che con sali di rame o metaboliti di sintesi.

Lasciatemi aggiungere la soddisfazione che, da genetista laureato a Firenze negli anni ‘80 dopo aver studiato Coltivazioni arboree sui libri del prof. Baldini e sostenuto l’esame col prof. Scaramuzzi, provo nel leggere di miei maestri quali il prof. Intrieri ed il prof. Testolin disquisire sugli “ultimi dettagli” qual è il nome di questi prodotti del miglioramento genetico. E in più, notare nelle interviste la piena apertura al loro utilizzo nelle Denominazioni di Origine, nonché l’auspicio che i futuri cloni dei vitigni nobili ottenuti con i nuovi strumenti genetici del genome editing vengano presto accettati dalla comunità vitivinicola nazionale alla quale mi pregio di offrire il contributo quotidiano del nostro Ente. Significa per me che siamo finalmente alle fasi finali di una nuova viticoltura. Fermare il progresso è un esercizio che molti hanno provato a fare in passato, sempre con gli stessi scarsi risultati. Il progresso va accompagnato, non osteggiato, altrimenti sfugge di mano.

Riccardo Velasco
Direttore del Centro di Ricerca in Viticoltura ed Enologia, CREA

Nomen omen - Ultima modifica: 2019-11-05T01:45:58+01:00 da Lorenzo Tosi

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