Aymavilles, piccolo Comune a 640 metri slm, è il cuore della vitivinicoltura valdostana, l’area vitata più grande e importante della piccola Regione del Nord Ovest, che conta complessivamente 500 ettari vitati, di cui 375 a Doc.
Vini da miniera, gli autoctoni Fumin e Blanc comun
Le tre cantine di Aymavilles – Les Crêtes, della famiglia Charrere; il vigneron Didiere Gerbelle; e la Cave des Onze Communes, guidata dal presidente André Gerbore – hanno acceso i riflettori nei giorni scorsi sull’importanza dei vitigni autoctoni valdostani organizzando un seminario seguito da una degustazione di alcune etichette delle stesse aziende; tra cui vini affinati in miniera a 2.000 metri d’altezza, rossi da uve fumin da lungo affinamento e bottiglie di blanc comun, una varietà in corso di recupero in una piccola vigna dedicata.
L’evento si è tenuto in concomitanza con la vendemmia di San Martino; in raccolta i grappoli di uve rosse fumin, tra i vitigni protagonisti della rinascita enologica degli autoctoni, oggi coltivato su 24 ettari totali ma negli anni ’90, quando rischiava l’estinzione, su appena 1,5 ettari; utilizzato, allora, per fare vini da taglio, oggi invece protagonista di etichette di qualità, espressione dei micro-terroir valdostani.
La complessità dei terroir
La complessità del territorio è stato uno degli argomenti principali del convegno, come ha evidenziato il ricercatore Rudy Sandi, mettendo l’accento su tre aspetti caratterizzanti della vitivinicoltura locale: l’eccezionale geologia e ricchezza di biodiversità della Val d’Aosta, l’antica storia produttiva e la ricchezza ampelografica della regione, che conta su una lunghezza di soli 56 km ben 18 vitigni autoctoni, praticamente 1 varietà ogni 3 km.
«Soltanto Aymavilles, il comune più vitato – ha sottolineato Sandi - è caratterizzata da 6 strati geologici nel raggio di 2,5 km: un terroir rarissimo e unico, composto da antichi graniti, porzioni di continente africano precedenti allo scontro tettonico e porzioni oceaniche primigenie. Una complessità di suoli e microclimi eccezionale, che affonda le radici nel cretaceo, quando 100 milioni d’anni fa si scontrarono i continenti africano ed europeo su un tratto di mare di 3.500 km di coste, un urto che portò alla formazione delle Alpi».
L’impegno del Consorzio
Un territorio, però, anche fragile, dove il lavoro in vigna spesso non meccanizzabile comporta tante ore di impegno, uno sforzo di gran lunga superiore a viticolture più pianeggianti, e che adesso per effetto del cambiamento climatico vede salire la vite sempre più in alto, nella regione vitivinicola che è già la più alta d’Italia e fra le più verticali d’Europa.
Un aspetto, questo, che è stato terreno di confronto tra i produttori della Doc Val d’Aosta. Il Consorzio Vini Valle d’Aosta intende infatti presentare, entro l’anno, una richiesta di modifica del disciplinare per innalzare la zona di coltivazione a 900-1.000 metri di quota, terroir eccezionali da recuperare anche per effetto del climate change, mentre oggi il disciplinare prevede un tetto a 800 metri.
È prevista, inoltre, la richiesta per estendere la Doc alla tipologia spumanti e la possibilità di produrre un vino Clairet, nome già in uso in Francia, ma non come tipologia. “Un rosso autoctono che vorremmo classificare come Doc – spiega Vincent Grosjean, presidente del Consorzio -. Forse sorgerà un problema con i francesi, ma intanto andiamo avanti”.
Di vitivinicoltura valdostana parliamo nella video intervista in apertura con il presidente Grosjean.