Difendere la tipicità, rinunciare alle peculiarità.
Sembra un gioco di parole e invece è la mossa più sensata che possa fare la filiera del vino italiano per preservare il suo ruolo (e i fondi per la promozione).
Il nuovo regolamento alle porte
Entro primavera si chiude infatti la fase negoziale e prende il via l’iter per la definitiva pubblicazione del “Regolamento del Parlamento Ue e del Consiglio relativo alle indicazioni geografiche dei vini, delle bevande spiritose e dei prodotti agricoli”. Una riforma della disciplina dei regimi di qualità che mira a garantire a Dop (denominazioni d’origine protetta), Igp (indicazioni geografica protetta) e Stg (specialità tradizionali garantite) una maggiore tutela nel Vecchio Continente e magari anche altrove, nei mercati internazionali dove non vengono riconosciute.
Editoriale VVQ 2/2023
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Le falle del sistema
Mettendole ad esempio al riparo da quelle falle del sistema, come evidenzia Paolo De Castro, relatore del provvedimento alla Commissione agricoltura dell’EuroParlamento, che consentono di sfruttare indebitamente la reputazione delle Indicazioni geografiche tramite norme tecniche nazionali, come nel caso dell’aceto balsamico sloveno o cipriota, o tramite strumenti unionali, quali le menzioni tradizionali, come nel caso del Prosek croato.
Filiera divisa
C’è poco tempo per schierarsi, ma la filiera europea del vino è tutto tranne che compatta. La Spagna appare infatti favorevole alla riforma. La Francia preferirebbe far rimanere il vino, isolato, nell’ambito delle attuali disposizioni dell’Ocm unica definita dal Reg. 1308/2013. In Italia, manco a dirlo, si litiga e le associazioni di riferimento sono divise tra le due opzioni.
Chi sostiene il no, ne fa una questione di identità: all’interno dell’universo agroalimentare il vino è con tutta evidenza un prodotto diverso per caratteristiche, storia, funzione. Tanto da meritare, fino al 2013, un’organizzazione comune di mercato specifica, con peculiarità rispettate anche all’interno dell’Ocm unica. A preoccupare, tuttavia, è soprattutto il rischio di dover condividere (e suddividere) fondi per la promozione sempre più risicati con tutte le altre tipicità agroalimentari Ue.
La presunzione di mettere il cappello sui fondi Ue
«È difficile essere umili quando si è grandi come lo sono io»
L’atteggiamento del vino assomiglia a quello di Muhammad Alì, l’unico pugile a meritarsi il soprannome di “The Greatest”. La boxe è però diversa dalla politica: la presunzione può rivelarsi un peccato mortale. Il nostro è il Paese che finora ha utilizzato di più i fondi europei per la promozione sui mercati terzi. In dieci anni abbiamo investito qualcosa come 1,5 miliardi di euro, di cui la metà di cofinanziamento Ue. È la misura più gettonata del piano di settore, deriva direttamente dalla conversione di misure anacronistiche come le distillazioni e gli arricchimenti: per questo la filiera considera questi fondi a proprio esclusivo appannaggio.
Le promozioni scadono
Così non è: sulla Pac, come dimostra la programmazione appena iniziata, incidono fortemente le scelte dei cittadini Ue, le misure sono in continua evoluzione e le promozioni, come sa chi frequenta super e ipermercati, non possono durare in eterno. Al vino converrebbe inventarsi qualche nuova misura di sostegno.
Il peso del neoproibizionismo
Anche perché chi appoggia il sì, ritenendo fondamentale che i vini di qualità Dop e Igp siano coperti dal nuovo Regolamento, sa che il clima a Bruxelles è profondamente cambiato. Le politiche di promozione (orizzontali e specifiche) sono in forte discussione e l’ostinato impegno dell’Oms, Organizzazione mondiale della Sanità, a spezzare il binomio vino-salute ha reso già difficile la conferma dei fondi per l’anno in corso.
Anche per questo il nuovo regolamento, in uno dei primi punti, ribadisce che “la qualità del vino è parte integrante del patrimonio culturale e gastronomico europeo”, una considerazione già espressa in Italia dal Testo Unico, inedita invece per l’Europa e che offrirebbe nuove e più solide giustificazioni per la difesa di questi fondi.
Se nel futuro non potremo più alzare i calici e gridare “alla salute”, potremo per lo meno brindare “alla cultura”.
Editoriale VVQ 2/2023