La biodiversità come una mappa che consente di Imparare la geografia attraverso
le papille gustative.
In questo periodo di forzata immobilità transregionale il vino è l’unico prodotto che può offrire la preziosa opportunità di “viaggiare”.
Basta un sito di e-commerce affidabile e un palato più o meno allenato e ognuno può organizzare in autonomia la propria degustazione orizzontale. Rifornirsi di diversi vini dello stesso vitigno, magari della stessa annata, ma di produttori differenti per riuscire, almeno in teoria, a cogliere le differenze relative al terroir e allo stile enologico delle diverse cantine.
Un esercizio che nella pratica è però sempre più complicato.
Editoriale del numero 8/2020 di VVQ
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Il mito dell’espressione territoriale
La ricerca dell’espressione territoriale riempie la bocca e l’immaginazione dei degustatori, ma la capacità sempre più diffusa di produrre qualità e le mode imposte dal mercato rendono difficile scoprire le differenze non solo tra denominazioni vicine, ma anche all’interno della stessa denominazione.
Per fortuna in Italia ci sono delle vere e proprie stelle polari per orientarsi tra i diversi territori. Il nostro è il Paese dei campanili e dei vitigni autoctoni. Tolte le prime cinque varietà top (Sangiovese, Montepulciano, Glera, Pinot grigio e Merlot), il 75% del vigneto Italia è coltivato con più di 80 diversi vitigni, il doppio di quello che capita in Portogallo o Romania, il quadruplo di Francia e Spagna.
Una biodiversità che negli anni passati è stata vissuta come un peso. Le numerose iscrizioni al Registro nazionale erano considerate più che sufficienti – ed anzi eccedenti – per affrontare il mercato globale.
Autoctoni come vere stelle polari
Salvo poi ricredersi davanti al successo di vitigni “nativi” come l’Uva Longanesi, scoperta in Romagna alla fine del secolo scorso e che oggi ha portato il Burson, il vino prodotto, a un inaspettato successo internazionale. In Molise sta succedendo qualcosa di simile con la riscoperta e la vinificazione in purezza della Tintilia. Il Grero, vitigno rosso riscoperto in Umbria e iscritto solo 10 anni fa, sta dando nuove chance a un territorio che soffre per le difficoltà del Sagrantino, penalizzato dalla crisi dei grandi rossi strutturati. Più di recente ha sollevato un forte interesse la prima produzione offerta al pubblico di un vitigno reliquia della Vallagarina Veneta come il Casetta “Foja Tonda”.
Il Vigneto Italia, grazie anche al rinascimento dell’attività di miglioramento genetico della vite, sta diventando un po’ meno conservatore e inizia ad apprezzare le “novità” varietali.
Perché il recupero segna il passo?
La riscoperta di antichi vitigni dà nuova linfa alla chiave geografica che sta alla base della piramide della qualità e consente alle aziende viticole di acquisire un forte vantaggio competitivo, purchè si parli di vitigni veramente autoctoni. Il problema è che la registrazione di questi vitigni non è mai stata semplice e ancor meno lo sarà in futuro.
Il Lagrein altoatesino, il Cesanese d’Affile del Lazio, i calabresi Gaglioppo e Magliocco, il pugliese Susumaniello, la Vitovska giuliana, il Ruchè piemontese, il Nerello mascalese etneo, il Pecorino marchigiano, per citarne alcuni, sono autoctoni che marcano il rispettivo territorio ma la loro registrazione risale ormai a 40- 50 anni fa. Le attività di recupero di varietà locali sconta oggi infatti la difficoltà ad accedere a finanziamenti pubblici anche per alcune difficoltà organizzative.
Una Biodiversity strategy anche per la vite
Per una specie come la vite non esiste infatti il registro delle varietà da conservazione che,
nel caso di specie cerealicole ed ortive, consente lo scambio di materiale da riproduzione tra privati per mantenere in vita specie identificate come minacciate da erosione genetica.
Un vero peccato soprattutto alla luce della Biodiversity strategy. La strategia dell'UE sulla biodiversità per il 2030 sarà infatti parte integrante della nuova Pac post 2022 per raggiungere gli obiettivi del Green Deal. L’impegno di Bruxelles è quello di sbloccare 20 miliardi di euro per incrementare la biodiversità e la viticoltura rischia di rimanerne esclusa.
Anche per questo si sta pensando di rimuovere i “blocchi” e istituire all’interno del Registro nazionale dei vitigni qualcosa di simile all’elenco delle varietà da conservazione, includendo innanzitutto i vitigni locali iscritti nei repertori regionali della biodiversità, ove presenti.
Una misura che faciliterebbe l’accesso ai fondi Psr della prossima programmazione per le attività di ricerca e di “custodia”. Perché la biodiversità contribuisce alla sostenibilità ambientale, ma nel vino è anche un eccezionale volano di valore economico e sociale.