Lo sperimentatore del contrario

Daniele Ricci, precursore del Timorasso naturale nella sua azienda a Costa Vescovato (Al) assieme alle due "novità" di quest'anno. Agapè, blend di Croatina e Barbera e Ti Voglio Bene, Cortese in purezza
Il paradosso di fare vini naturali con il vero spirito della scienza, ovvero verificando i perché e soprattutto i “perché no”. Daniele Ricci spiega i segreti dei suoi Timorasso a lunga macerazione, tutti diversi. Alla faccia di chi crede che gli orange wine siano tutti uguali

Ritmi più veloci, nuove sonorità, temi più strutturati e viscerali, strumentazioni essenziali per mettere in risalto il messaggio o l’abilità tecnica.

Il vino è come la musica: l’unico prodotto agricolo in grado di generare cultura. E come la musica improvvisamente cambia stile: dalla canzonetta al cantautorato, dal rock al punk. Passaggi difficili da interpretare per chi si è assuefatto ai soliti accordi, ma in grado di conquistare nuovi entusiasti proseliti, magari più giovani. È quello che sta capitando nel passaggio tra vini tradizionali e naturali.

 

In direzione ostinata e contraria

Svolte epocali innescate dal testardo impegno di motivati dissidenti. Che magari arrivano a proclamare il proprio credo addirittura in etichetta: “Io cammino da solo”, procedendo in direzione ostinata e contraria.

In questo Daniele Ricci assume nel vino il ruolo anticonformista che Fabrizio De Andrè, non uno qualsiasi, ha svolto nella musica italiana. Un bastian contrario che non si è arreso alla banalità del “così fan tutti”, ma che ha scelto invece di non uscire mai dall’età dei “perché” e soprattutto dei “perché no”.

Precursore del Timorasso naturale nella sua azienda agrituristica Cascina San Leto a Costa Vescovato (Al), sui Colli Tortonesi. L’anomalo vitigno bianco piemontese, rilanciato negli anni ’90 dal pioniere Walter Massa, gli è capitato per caso tra le dita (al vivaista aveva chiesto Cortese), ma si è rilevato lo strumento più adatto. Duttile e sensibile alle accordature scelte da Ricci per portare nel vino le proprie tensioni. Dissonanze che non sono state subito accettate all’interno della giovane denominazione piemontese.

Etichette parlanti

«Oggi che il fenomeno dei vini naturali è di moda – dichiara –, mi vedono mio malgrado come una sorta di guru e accettano quasi tutto quello che faccio».

«Prima mi chiedevano: fai un Timorasso un po’ più normale, così chi lo beve lo capisce. È capitato almeno due volte: prima quando l’ho vinificato in anfora (“Io cammino da solo”, per l’appunto); poi quando ho lanciato la versione da botte scolma, sullo stile dei vini dello Jura (“CCC”, che sta per Come un Cane in Chiesa)». «Forse avevano ragione».

O forse no, perché Ricci ha trovato un doppio modo per rispondere alle critiche: con l’originalità dei vini che produce e con le etichette che spiegano, senza tanti giri di parole, le scelte del produttore. Oltre ai due must già citati anche: “Rispetto”, “El Matt”, “Ti voglio bene” (le risposte per questa intervista ci sono già, bisogna solo trovare le domande giuste).

E poi perché nella sua azienda segue un’impostazione che coniuga tradizione e sperimentazione (con l’obiettivo di fare emergere l’impronta del territorio, ma anche il carattere del produttore). Un aspetto, quello della sperimentazione, che interessa molto la nostra rivista.

Senza chimica, senza cantina

Ma a ben vedere la sua è una “sperimentazione del contrario”. È partito negli anni ’90 dalla volontà (e necessità) di dimostrare che si può produrre vino senza lieviti selezionati e senza chimica in vigneto («per salvaguardare la salute, sua e della sua famiglia»).

Ha continuato con l’azzardo di rinunciare addirittura alla cantina, vinificando in anfore interrate direttamente nel vigneto.

Ha provato affinamenti alternativi (botti di acacia e di castagno).

Ha “tradito” lo stretto sodalizio con il Timorasso cedendo alle lusinghe del rivale storico, il Cortese, o addirittura a vitigni internazionali come il Sauvignon senza perdere l’identità aziendale.

Ed è uno dei pochi vigneron che dimostra che si può produrre un’ampia gamma di vini a lunga macerazione, tutti diversi. Possibile?

Gli orange wine non sono tutti orange

Eppure i detrattori dicono che gli orange wine sono tutti uguali.

«Il rischio di omologazione c’è, la lunga macerazione può coprire l’espressione del vitigno e del territorio, se non si tiene conto di due o tre “segreti”».

Quali?

«Innanzitutto è meglio evitare di caratterizzarli per il colore: i vini a lunga macerazione che produco non sono “aranciati” o addirittura color “mattone” come capita spesso adesso. L’ossidazione fine a sé stessa non ha senso, non è questo il carattere che deve prevalere nei vini naturali. L’obiettivo deve rimanere quello di proteggere e accudire il mosto e vino e il punto di partenza è ovviamente l’uva: l’acino deve essere perfetto, la maturazione piena».

Una condizione difficile da centrare, viste le ricorrenti ondate di calore, uno dei regali del climate change.

«È vero, anche quest’anno abbiamo registrato vari giorni con temperature oltre i 35-40°e il Timorasso è delicato e suscettibile alle scottature». «Per questo occorre valorizzare elementi come l’esposizione e la giacitura: il vigneto di Cascina San Leto è un anfiteatro naturale, un paradiso enologico all’interno del territorio dei Colli tortonesi. La gestione agronomica e delle lavorazioni deve essere precisa in ogni dettaglio, con la cura di lasciare le foglie basali per proteggere il grappolo, ma non basta».

«Alle lunghe macerazioni viene destinato solo il Timorasso esposto a Nord-est, il primo ad essere “rinfrescato” dal cono d’ombra pomeridiano. Poi occorre la massima cura durante la vendemmia, ovviamente manuale e in cassette piccole, ma i grappoli vanno adagiati con attenzione per preservarne l’integrità».

Vinaccioli croccanti

Dunque acini perfetti, poi?

«Vendemmiare bene e al momento giusto, ovvero quando i vinaccioli sono “croccanti”».

Più che per il vino, sembra il segreto per fare un’ottima pasta: scolarla quando è “al dente”.

«La pasta scuoce, l’uva surmatura e diventa buona solo per produrre “vinoni” superalcolici tutti uguali. Se anticipiamo troppo otteniamo invece spigolosità che non vanno bene per le lunghe macerazioni: il momento giusto è indicato dal viraggio del colore dei vinaccioli, l’elemento più affidabile per individuare la maturazione fenolica, un elemento decisivo soprattutto per il Timorasso, che spesso è considerato un rosso travestito da bianco».

«A maggior ragione se vinificato in anfora, dove la protezione assicurata dai tannini “buoni” e dagli altri polifenoli deve poter durare a lungo. Attenzioni che sono massime in un’azienda di dimensioni contenute, dove il produttore può avere tutto sotto controllo».

È questo il motivo per cui coltivate solo 11 ettari?

«Il vero capitale che fa grande il viticoltore è il tempo, il suo e quello necessario per far maturare i vini che ha in testa: non si può speculare su questo capitale».

Un cuscino di raspi

Poi si passa alla vinificazione?

«Non subito. Oltre ai vinaccioli sono importanti i raspi (secondo segreto), soprattutto in anfora. Formano una sorta di cuscinetto che favorisce la giusta microssigenazione del mosto, soprattutto per chi, come noi, evita accuratamente rimontaggi e rimescolamenti, mantenendo con rigore le condizioni per una vinificazione “a cappello sommerso”».

«Per questo le cassette con l’uva vengono lasciate “riposare” per 4-5 giorni in un luogo areato prima della pigiatura: anche i raspi devono maturare, perdere il “verde”».

Anfore tra le marne

A questo punto si può andare in cantina o, meglio, si rimane in vigneto nelle anfore interrate. Da dove deriva questa scelta?

«Un criterio etico, estetico, tecnico e anche un po’ poetico: per mettere in evidenza che è il vigneto che fa il vino. Ma anche perché non ha senso lasciare le anfore fuori terra, magari per farle vedere a chi visita le cantine: c’è troppo scambio gassoso. La marna tortoniana è l’elemento che caratterizza i vigneti del nostro territorio: un suolo povero che si sposa bene con le argille delle anfore di Impruneta da mille litri che utilizziamo. L’interramento riduce lo scambio gassoso senza necessità di rivestimenti di pece all’esterno o di cera all’interno».

«Le anfore poi sono posizionate non lontano da una sorgente naturale, un elemento che porta freschezza. Da quando le utilizziamo non abbiamo mai avuto problemi di blocco delle fermentazioni e la vinificazione con cappello sommerso ha sempre evitato lo sviluppo di “volatili” alte. L’evaporazione è limitata, sono necessari solo alcuni rabbocchi con mosto, ma il monitoraggio è costante e l’elemento più affascinante è che da ogni anfora si ottiene sempre un vino diverso».

Una ricerca della “biodiversità” che emerge anche dalla ricchezza della gamma dei vini prodotti.

«La macerazione non dà omologazione, semmai è il contrario: è l’abuso del freddo e dei lieviti selezionati che produce vini che si assomigliano. Dopo 90-100 giorni di macerazione in anfora ““Io cammino da solo” matura senza perdere la sua vitalità. E lo stesso succede per il “Giallo di Costa”, sempre Timorasso, stesso periodo di permanenza sulle bucce, ma in cantina, in acciaio».

Cambia solo il contenitore?

«Anche l’uva: nell’anfora occorre un estratto secco molto alto per garantire la struttura del vino che verrà, sopportando la “botta” dell’anfora: nonostante tutti gli accorgimenti lo scambio di ossigeno è ovviamente superiore rispetto all’acciaio».

Elevage che non coprono

C’è chi ricorre a successivi affinamenti in legno per far rifiorire vini “spenti” dall’anfora.

«Nella prima esperienza di lunghe macerazioni pensavo facesse parte della “ricetta”. Ho provato con botti di castagno, che apportano maggiore tannicità. Ma se si fa tutto con cura, basta l’anfora. Anche perché, per scelta personale, evito anche per i rossi di produrre vini che sappiano solo di legno».

Eppure i francesi chiamano questa fase “elevage”, presupponendo che il legno nobiliti il vino.

«Una “nobiltà” che forse serve a dare un senso di continuità della casata, coprendo l’espressione dell’annata. A Cascina San Leto siamo più democratici: non abbiamo paura della diversità, anzi la ricerchiamo. Il Nebbiolo, Croatina e Barbera che produciamo riposano in grosse botti da 700 litri di acacia, un legno che non dà cessioni e che ha una maggiore porosità. Oppure in barrique di rovere con doghe piegate a vapore e non tostate, che non marcano con l’aroma boisèe. La scelta più corretta per valorizzare le peculiarità di creature originali come Agapè, la novità dell’annata. Un blend di Barbera e Croatina che siamo riusciti a produrre come volevamo solo nel 2003 e nel 2016 e che sta uscendo proprio quest’anno, dopo 4 anni in barrique, ma il legno non si sente, ha fatto solo da contenitore».

Il marchio di fabbrica

Eppure anche per Cascina San Leto c’è un elemento che caratterizza la “casata”: la macerazione è un marchio di fabbrica, addirittura anche per il Sauvignon.

«Un vitigno che mi ha sempre affascinato e a cui ho riservato una porzione di vigneto non vocata per il Timorasso. Nei primi anni ne ho ricercato gli aromi caratteristici del vitigno, la foglia di pomodoro. Poi la svolta: vendemmia a piena maturazione e 20 giorni di macerazione sulle bucce».

«“Rispetto”, il vino ottenuto, è stato una sorpresa: colore oro, minerale e persistente, trasmette i profumi di queste marne. L’ideale per spiegare, nel corso delle degustazioni in agriturismo, che i vini a lunga macerazione non sono per forza estremi, ma sanno conquistare anche i degustatori meno esperti».

Come un cane in chiesa, di nuovo

Eppure anche tra i vini di Daniele Ricci c’è addirittura un Superorange, estremo come stile di produzione e per il colore.

«CCC, Come un cane in chiesa, è un vino ottenuto da una macerazione di tre giorni e successiva maturazione “in botte scolma” che mi ha fatto tornare alle origini, al dissenso preventivo, come agli inizi degli anni 2000».

«Ho preso spunto dai vini tipici dello Jura, la regione francese che ha sempre resistito alle contaminazioni della vicina Borgogna. Un’interpretazione personale resa possibile dal vantaggio di lavorare con un’uva “magica” come il Timorasso».

«Ho utilizzato le produzioni dei vitigni più vecchi e meno produttivi e solo nelle annate migliori (la prima nel 2011). Nei vecchi tonneaux da 500 litri, scarichi (già utilizzati per 5-6 anni), riempiti per tre quarti e custoditi in un locale diverso rispetto alla cantina, si è sviluppata la flor, il velo batterico naturale, che ha protetto il vino dalle eccessive ossidazioni».

«Poi me lo sono dovuto scordare: il vino ottenuto in questo modo è come un “amico fragile”, non si può verificare con l’assaggio l’andamento delle fermentazioni come nell’anfora, perché il velo batterico deve rimanere assolutamente integro. E se qualcosa va storto è solo da buttare. Per la prima annata prodotta la maturazione è durata fino a 5 anni, ma dopo questo lunga maturazione e un periodo di decantazione in acciaio o in acacia, il CCC è emerso in tutta la sua potenza: intenso e strutturato ma con la caratteristica vena minerale del Timorasso».


Cascina San Leto

Daniele Ricci

Azienda Carlo Daniele Ricci, agriturismo Cascina San Leto, Costa Vescovato (Al)

Quattro generazioni e lo stesso pezzo di terra: Daniele Ricci l’ha ereditato dal nonno Carlo e dal padre Filippo e assieme a lui c’è il figlio Matteo.

Una terra povera e difficile da lavorare: marne calcaree bianche e argillose, una volta periferiche rispetto ai blasonati bricchi dei rossi della Langa. Ora al centro del rinascimento del Timorasso e della doc Colli Tortonesi (oggi Derthona), innescata da Walter Massa, il primo che ha creduto nelle potenzialità di questo vitigno bianco. Daniele lavora in azienda dagli anni ’80, ma è dai primi 2000 che imprime la svolta decisiva, convertendo il vigneto al regime biologico e sviluppando una gestione personale del vigneto e della cantina che lo portano a produrre vini dall’identità unica.

Lunghe macerazioni, fermentazioni spontanee, nessun controllo delle temperature, scarso ricorso a solfiti, maturazioni in botti grandi di acacia e anfore interrate direttamente in vigneto lo fanno l’antagonista di un modo di produrre che mira all’immediatezza e alla facile bevibilità.


I vini

Nell’articolo sono citati solo alcuni dei vini prodotti da Daniele Ricci:

  • Io cammino da solo. Timorasso macerato per 90- 100 giorni sulle bucce in anfore interrate di terracotta (provenienza Impruneta). Matura in bottiglia per ulteriori due anni.
  • CCC, Come un cane in chiesa. Superorange ottenuto da Timorasso dopo una macerazione di 3 giorni sulle bucce ed un lungo affinamento in barrique scolma per 6 mesi sullo stile dei vini di flor dello Jura.
  • El Matt. Croatina in purezza, raccolta da una vigna di 25 anni di solo 1 ha esposta a sud-sud/ovest. Vinificazione e affinamento in acciaio per 12 mesi.
  • Giallo di Costa. Timorasso macerato per quasi tre mesi sulle bucce, fermenta spontaneamente e affina in grandi botti di acacia o in acciaio.
  • Rispetto. Sauvignon blanc vinificato in vasca d'acciaio con macerazione di 20 giorni sulle bucce a cappello sommerso.
  • Ti voglio bene. Cortese in purezza che cresce in un vigneto di 1,5 ettari staccato rispetto al corpo aziendale del vigneto San Leto, acquisito più di recente da Ricci e da lui convertito dalla gestione convenzionale a quella biologica. Le analisi multiresiduo su vite e terreno ne stavano per sconsigliare la coltivazione, ma Ricci ha deciso di “volere bene” a questo pezzo di terra, portando la produzione da 150 q/ha a 40 e ottenendo un vino di grande freschezza e mineralità, dimostrando di “volere bene” anche ai non fan dei vini a lunga macerazione.
  • Agapè. Blend di Croatina e Barbera, prodotto solo nelle annate migliori (per ora solo 2003 e 2016). Matura per 4 anni in barrique di rovere non tostata, è la novità di quest’anno.

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Lo sperimentatore del contrario - Ultima modifica: 2021-07-04T21:00:13+02:00 da Lorenzo Tosi

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