Il registro varietale nazionale è una capsula del tempo con 642 varietà di vite da vino e più di 1.200 cloni. Uno scrigno di biodiversità selezionato e caratterizzato nel corso dei decenni in luoghi diversi e con tecniche differenti.
Una favolosa collezione di possibilità in cui però oggi i viticoltori faticano a trovare opzioni veramente convincenti per il futuro. Cambiamento climatico, crisi inflattiva, tensioni geopolitiche internazionali stanno infatti frenando la corsa del vino italiano dopo anni di successi, soprattutto nell’export. Cosa impiantare?
Anteprima editoriale VVQ 8/2023
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Sete di novità
Il settore del vino cerca una svolta: secondo i migliori analisti i consumatori hanno infatti sete di novità. Per rinverdire il successo di prosecco, pinot grigio, lambrusco e di quello, un po’ appannato, dei nostri grandi rossi, che cosa possiamo inventarci?
Il futuro è resistente e le varietà piwi sono un’opzione da non sottovalutare, specie dopo un’annata di forti attacchi di peronospora. Un orizzonte per ora allontanato dalla ritrosia (ne abbiamo parlato spesso) ad autorizzarne la coltivazione in tutta Italia e a inserire queste varietà nei disciplinari delle doc.
Se è vero che la nostra penisola vanta la maggiore ricchezza ampelografica al mondo, un’altra solida chance è poi quella rappresentata dagli autoctoni. Vitigni tipici, diffusi in aree estremamente limitate che negli ultimi anni, come il Bursòn romagnolo, la Ribolla gialla friulana, il Nerello mascalese etneo, ecc. hanno avuto flash di notorietà trovando insperati canali di vendita nei mercati più cool grazie all’attenzione anticonformista di millennials e generazione Z.
Iscrizioni con il freno a mano tirato
Il problema è che il ritmo delle nuove iscrizioni di queste varietà storiche, dopo il boom dello scorso decennio, si sta progressivamente rarefacendo. Non per mancanza di interesse e di studi, che invece continuano ad essere portati avanti con passione dai diversi centri di ricerca specializzati, ma per l’inadeguatezza dei criteri selettivi.
Innanzitutto riguardo alla storicità: l’art. 6. del Testo unico della vite e del vino (L. 238/2016, entrata in vigore a inizio 2017) considera infatti autoctono un vitigno di cui è dimostrata l’origine esclusiva in Italia e la cui presenza è rilevata in aree geografiche delimitate del territorio nazionale.
Un criterio preso seriamente dal ministero dell’agricoltura e della sovranità alimentare per le nuove iscrizioni, costringendo a lunghe e spesso infruttuose ricerche bibliografiche. Il problema è che, fino alla nascita delle Doc in Italia, a parte poche aree di pregio, si distingueva il vino per colore e non per vitigno. Poco male: le tracce storiche e geografiche dei vitigni non sono scritte nei vecchi libri, ma nel loro DNA. Basterebbe analizzarlo per risolvere l’arcano.
Una scienza inesatta
L’enorme evoluzione della genomica avvenuto negli ultimi anni fa però molta fatica ad entrare nel registro varietale della vite. Nonostante per molti vitigni siano infatti inseriti anche i profili genetici, per l’iscrizione continua a far fede la scheda ampelografica. Un’analisi i cui criteri sono stati recentemente aggiornati, adeguandoli a quelli predisposti in Europa dal Cpvo (Community Plant Variety Office) che però valgono non solo per la vite, ma per tutte le specie botaniche di interesse agrario (comprendendo così, ad esempio, la descrizione dei fiori che per la vite non ha senso). L’ampelografia, ovvero la descrizione morfologica degli organi della pianta, è però tutto tranne che una scienza esatta e, soprattutto, richiede molto tempo e denaro.
La carta d'identità genetica
Criticità che sarebbero risolte dal ricorso ai marcatori microsatelliti o Ssr (simple sequence repeats), affidabili e analoghi a quelli usati per l’uomo nei test di paternità. Sulla vite sono stati caratterizzati dall’inizio degli anni duemila e sono raccolti e disponibili nelle banche dati internazionali. Un fronte su cui l’Italia avrebbe anche altre carte da giocare: dopo il primato della codifica del genoma della vite la nostra ricerca è infatti andata avanti, arrivando alla mappatura di 207 diverse varietà nazionali.
L’utilizzo di questi marcatori consentirebbe, tra l’altro di risolvere i casi di falsa omonimia e le duplicazioni ancora presenti nel catalogo nazionale e faciliterebbero le iscrizioni degli autoctoni oggi in coda. Spesso selezionati proprio per far fronte agli effetti del climate change (ad esempio per il periodo di vendemmia più tardivo) o al mutato gusto dei consumatori (adatti ad esempio a rossi meno strutturati e di facile beva).
Anteprima editoriale VVQ 8/2023
Il fatto è che la “origine esclusiva in Italia” è un requisito indimostrabile, e quindi insensato. E’ un passaggio del testo unico che andrebbe abolito e sostituito con una definizione più coerente con la realtà. Nell’introduzione a “Vitigni d’Italia” edito da Slow Food scrissi questa definizione: “abbiamo considerato come autoctoni i vitigni la cui presenza in un certo territorio è “antica”, vuoi per attestazioni scritte, vuoi per testimonianze orali, vuoi perché non ci sono tracce documentali di una sua importazione dall’esterno”. In ogni caso anche se un vitigno non fosse autoctono sarebbe forse questo un motivo per non iscriverlo al registro nazionale? No, per cui non mi è chiaro da cosa deriverebbe la difficoltà. Piuttosto il problema è la richiesta di una documentazione sperimentale sulla idoneità, che se può avere senso (ma forse nemmeno) per un vitigno straniero non mi pare che ne abbia nessuna su vecchie varietà che in un certo ambiente sono presenti da decenni se non da secoli.
Mi pare che pur partendo da alcune considerazioni giuste, non si esprimano correttamente i problemi del settore.
L’essere ‘autoctono’ ad esempio, non è un criterio richiesto per l’iscrizione di un vitigno a Registro. Piuttosto esiste una via ‘preferenziale’ per l’iscrizione a Registro delle varietà cosiddette ‘conosciute’. E’ invece vero che per le altre varietà (non ‘conosciute’), le attuali procedure previste per l’iscrizione sono…eterne.
Anche l’affermazione per cui “le tracce storiche e geografiche dei vitigni non sono scritte nei vecchi libri, ma nel loro DNA” non è condivisibile. In Piemonte si coltiva il Cortese da almeno 400 anni, benché sia dimostrato che questo vitigno non ha legami genetici con altre cultivar piemontesi. E ci sono molti altri esempi simili e anche opposti.
Eliminare la morfologia dai criteri per l’iscrizione sarebbe poi molto pericoloso. L’ampelografia morfologica è indispensabile per identificare un vitigno: si pensi solo banalmente alle mutazioni per colore della bacca (es.: Pinot nero/grigio/bianco) o per altri caratteri (es.: Negro amaro/Negro amaro precoce o Savagnin/Gewurztraminer) in cui non ci sono assolutamente differenze nel profilo genetico a 9 loci SSR (quello che si usa abitualmente, anche nel RNVV). Inoltre affidarsi solo alla genetica esporrebbe a grossi problemi dovuti a campionamenti errati od imprecisi del materiale da sottoporre all’analisi stessa (e aassicuro, per esperienza, che non è un evento raro…). Infine la morfologia è proprio ciò che ci ricollega alla storicità di un certo vitigno (se tutti sappiamo cos’è il Barbera o il Sangiovese è perché la loro morfologia corrisponde a quella del Barbera o del Sangiovese storici e il riconoscimento della cultivar si è ‘tramandato’ per secoli per via morfologica, ben prima che si conoscesse la stessa esistenza del DNA). Eliminare la morfologia potrebbe ad esempio portare a utilizzare il nome storico di una certa cultivar per indicare un’altra varietà che non c’entra nulla con quella storica…
Non mi è chiaro infine cosa siano i casi di ‘falsa omonimia’, mentre le duplicazioni nel Registro sono ormai state (quasi) tutte evidenziate e chiarite sul Registro stesso.
Riguardo all’idoneità, Maurizio, sfondi una porta aperta: siamo costretti ad anni di costose sperimentazioni per dimostrare che un vitigno (che magari è già coltivato con successo in un’area analoga e persino confinante) produce vini ‘leali e mercantili’. Quando probabilmente basterebbe il buon senso e la risposta del mercato a giudicarne i prodotti. Ma comunque questo è un aspetto che riguarda l’idoneità nelle unità amministrative, non l’iscrizione al Registro…
È innegabile che la questione in discussione è divenuta complessa, l’articolo 6 del testo unico anziché semplificare ha di fatto complicato, poiché come ben espresso da entrambi i commentatori precedenti l’origine esclusiva è difficilmente dimostrabile, sarebbe auspicabile una modifica di tale articolo (ottima a tal proposito la definizione di Maurizio Gily). Così come la richiesta di un dossier sperimentale (lungo, costoso e inutile); se un genotipo è lì da tanti decenni o secoli vuole semplicemente dire che si è bene adattato a quell’ambiente, in caso contrario si sarebbe estinto. Tuttavia, secondo me l’attenzione dovrebbe essere spostata sull’interesse vero che il territorio mostra nei confronti di un genotipo locale sottoposto a richiesta di iscrizione al RNVV per consentire un suo sfruttamento commerciale (contenimento dell’erosione genetica a parte, anche se da questo punto di vista sono operativi i Registri Regionali per la tutela del patrimonio genetico di interesse agrario a rischio di erosione genetica). Allora sarebbe auspicabile che dietro, anzi davanti, a questa richiesta ci fossero gli attori della produzione, cioè consorzi, associazioni di produttori, gruppi di enologi e cantine e meglio ancora le amministrazioni comunali (che controllano i territori e possono indirizzare le varie espressioni di sviluppo). Allora sì che il vitigno autoctono diventa uno strumento tecnico per creare vini diversi e forse capaci di allargare la piattaforma dei consumatori, come dimostrano pochi casi reali. Altrimenti l’iscrizione diventa un mero esercizio tecnico, lì nasce e lì muore, spesso utile solo al ricercatore di turno per giustificare magari qualche progetto di sperimentazione/ricerca. L’iscrizione al RNVV dovrebbe essere un punto di partenza e non di arrivo, come purtroppo è successo a decine di vitigni autoctoni iscritti anche di recente, parcheggiati e ahimè non utilizzati. Sono altresì d’accordo con il fatto che il profilo genetico non può e non deve sostituire l’ampelografia, ma affiancarla in modo da dare ai valutatori uno strumento in più, certamente ampliando il numero di loci SSR rispetto ai 9 standard attuali.
Infine, gli ottimi database viticoli esistenti non sono infallibili, talvolta come è normale le informazioni ampelografiche, immagini incluse, non corrispondono alla realtà, pertanto anche qui il loro utilizzo, soprattutto se comparativo, va sempre ponderato.
Il sasso lanciato dal giornalismo accende le discussioni, come sempre, con la speranza si possa migliorare/ottimizzare e perché no semplificare.