Più geni e meno sregolatezza. La partita delle nuove biotecnologie in agricoltura arriva al momento clou. Una Commissione di esperti ha redatto il rapporto richiesto da Bruxelles su un ricco menù di nuove possibilità che vanno dal genome editing alla cisgenesi e all’intragenesi, agro infiltrazione, silenziamento genico da sRNA e mRNA, innesto su portinnesti gm e reverse breeding. Un’ampia gamma di acquisizioni che consentono di individuare, introdurre o silenziare, in maniera più precisa (e senza lasciare tracce), geni giudicati interessanti per piante, animali e microrganismi, compresi i lieviti. Una bussola d’orientamento che sottolinea le potenzialità (in particolare del genome editing) senza sbilanciarsi sui termini di sicurezza. Tocca alla Commissione europea assumere una decisione: o includere le new breeding technique (Nbt) nella penalizzante definizione giuridica di Ogm, bloccandone di fatto le possibilità di sviluppo nel vecchio continente, o concedere loro più libertà di ricerca (e di coltivazione). La novità è che improvvisamente sembra preponderante il partito di chi tifa per il sì. Il nostro Paese è tra questi e uno dei settori più caldi è proprio quello vitivinicolo, che ha un occhio di riguardo in particolare per la cisgenesi (l’introduzione di geni provenienti dalla stessa specie) e il genome editing (la possibilità di modificare selettivamente un gene grazie al complesso CrisprCas9). Strumenti che consentono un breeding di precisione. Biotecnologie considerate più sostenibili, proprio perché ritenute l’uovo di Colombo per risolvere quello che oggi è il problema numero uno della viticoltura: la sostenibilità. I vigneti coprono infatti solo il 3,3% della superficie Ue (3.5 milioni di ha) ma consumano il 65% dei fungicidi impiegati nel vecchio continente (74mila tonnellate). Sono le stesse motivazioni che hanno spinto quindici anni fa alcuni centri d’eccellenza del nostro Paese a intraprendere la strada del miglioramento genetico della vite attraverso incroci e introgressione di caratteri di resistenza provenienti da specie americane o asiatiche. Una strada che ha prodotto dieci eccellenti frutti, ma c’è un problema, anzi due. Dagli incroci si ottengono varietà diverse da quelle di partenza (che vanno registrate con nomi diversi, con meno appeal commerciale). Un secondo rischio potenziale è quello di perdere parte della biodiversità del germoplasma viticolo. È già successo: molte delle varietà oggi coltivate sono frutto di incroci (spontanei o no) di parentali di cui spesso si è persa le traccia. È proprio questo il timore che ha frenato molte regioni dall’autorizzare la coltivazione delle nuove varietà nel proprio territorio: viti più facili da coltivare avrebbero finito per intaccare, dicono, un patrimonio di vitigni autoctoni che sono oggi alla base del nostro successo. Meglio piuttosto puntare a modificazioni a tappeto di tutti i vitigni nostrani tramite Nbt, un sogno possibile? I geni noti di resistenza a oidio e a peronospora sono parecchi, ma occorre che tutto il costrutto da trasferire, compresi promotori e geni marcatori, sia di provenienza cisgenetica, e questo può essere un limite. Più accessibile dal punto di vista tecnico sembra invece la strada del genome editing. Ma quali geni conviene modificare? L’unico noto su cui intervenire sembra il gene Mlo di suscettibilità all’oidio: troppo poco. Le nuove biotecnologie sono come quel gran genio dell’amico di Lucio Battisti, ma il cacciavite della CrisprCas9 non fa miracoli. Per continuare a viaggiare sulle rotte della sostenibilità conviene continuare ad applicare tutte le attenzioni e tutti i mezzi: agronomici, digitali e certamente, perché no, anche genetici.
Controcanto
VITIGNI FIGLI DISEREDATI Cinque bianchi (Fleurtai, Soreli, Sauvignon Kretos, Sauvignon Nepis, Sauvignon Rytos) e cinque rossi (Cabernet Eidos, Cabernet Volos, Merlot Khorus, Merlot Kanthus, Julius) sono i vitigni resistenti a peronospora e oidio ottenuti da un articolato programma di piramidazione da Iga, Istituto di genomica applicata di Udine, grazie al decisivo sostegno della Regione Friuli Venezia Giulia. Tanto che nel registro nazionale le nuove varietà sono targate con il nome della Regione. Un sostegno che deve essere improvvisamente venuto meno: nella concessione delle nuove autorizzazioni all’impianto la regione friulana ha infatti escluso le varietà che non possono essere iscritte nelle doc (in pratica solo i vitigni resistenti), mentre il vicino Veneto ha deciso di non penalizzarle.
Editoriale di VVQ 4/2017, Giugno