Siamo il Paese con maggiori siti Unesco al mondo (50) seguiti di misura dalla Cina (47) e con circa il 50% del patrimonio artistico internazionale. Un Paese con un territorio variegato capace d’offrire paesaggi e microclimi diversi da nord a sud, dal mare alla montagna. Siamo anche il Paese con il più alto numero di vitigni utilizzati (200), seguiti dalla Francia (87); quello con il più alto numero di Dop e Igp (270) davanti a Francia (217) e Spagna (179), ma anche il maggiore produttore di vino (con 44,4 milioni di ettolitri nel 2014) di misura dietro ai cugini francesi (46,2 milioni). Una dote così importante, fisiologicamente collegata al turismo del vino, dovrebbe costituire una straordinaria risorsa per l’Italia. In realtà soffriamo di alcune debolezze croniche dovute principalmente al pesante scarto tra attrattività e competitività, alla mancanza di un’intesa strategica tra istituzioni e operatori, alla scarsità di azioni sistemiche in linea con le vocazioni territoriali e alla mancanza di un approccio di marketing per target e segmentazioni di mercato; come osserva il XII Rapporto sull’Enoturismo realizzato dall’Università di Salerno per conto dell’Associazione Nazionale Città del Vino e presentato venerdì 13 febbraio 2015 alla Bit di Milano. Il turismo del vino si collega fisiologicamente ad altre attività ricreative sul territorio e può completare l’offerta esistente come elemento di differenziazione competitiva rispetto ad altre destinazioni prive di questa peculiarità. Invece troppo spesso si lascia l’iniziativa a quelle cantine, relativamente poche, con un’efficace cultura della comunicazione. I punti di forza dell’Italia potrebbero proiettarci al primo posto nel mondo in campo enoturistico, tuttavia primeggiano altri Paesi, soprattutto quelli di matrice anglosassone (Usa, Australia, Nuova Zelanda) ma anche i latinoamericani come Cile e Argentina, che hanno adottato un modello sostanzialmente diverso, con imprese giovani e di dimensioni rilevanti, forte approccio al business e al marketing. Al contrario l’enoturismo italiano anche sul fronte privato è frenato da alcune debolezze competitive: la generale assenza di uno spirito di collaborazione sistemico tra i produttori; il mancato dialogo tra operatori turistici dei diversi settori; lo scarso utilizzo delle tecnologie e del web; la limitata capacità nella valorizzazione delle produzioni; la bassa notorietà e reputazione di alcuni territori, tranne le regioni più note. Secondo i dati della Wine Tourism Conference gli arrivi turistici mondiali nel comparto enoturistico ammontano a circa 20 milioni, di cui solo 3 milioni sono gli arrivi italiani. Il trend che sta caratterizzando da un po’ di anni il turismo nazionale non aiuta di certo il segmento enoturistico: il Paese, infatti, sta progressivamente perdendo posizioni rispetto ai concorrenti storici ed emergenti, Stati Uniti, Francia e Spagna in primo luogo. La nostra quota di mercato mondiale sul turismo, infatti, si è ridotta dal 6,6% al 4,5% negli ultimi venti anni (fonte: UNWTO) e nonostante il potenziale di attrazione del Belpaese non si intravede una capacità di invertire tale tendenza, anche a causa della mancanza di un approccio settoriale. Da una recentissima ricerca condotta dalla società di consulenza turistica Jfc (pubblicata nel febbraio 2015) sulla base di dati ufficiali Istat ed Eurostat emerge, in maniera abbastanza drammatica, la debole crescita del settore turistico italiano in generale. Lo studio, analizzando i dati relativi ai tassi di crescita turistici regionali nel periodo 2003-2013, ha parlato di un’Italia turistica ferma al palo e incapace di reggere il passo dei concorrenti: nell’ultimo decennio, l’Italia ha visto incrementare i propri flussi turistici dell’8,6%, a fronte del +52,4% della Francia; +45,3% della Croazia; +40,7% della Grecia; +17,5% della Germania; +16,2% della Gran Bretagna; +11,8% della Spagna; +14% dell’Austria. In tale contesto assume però importanza la crescita costante dell’enoturismo, fenomeno che negli anni ha registrato un continuo sviluppo, generando nel 2013 un giro d’affari di 4-5 miliardi di euro. Ma siamo ben al di sotto del potenziale, in gran parte da mettere ancora a frutto. “Il caso dell’Expo è emblematico: da grande opportunità a possibile ed ennesima occasione mancata – lancia l’allarme il direttore delle Città del Vino, Paolo Benvenuti -. Il palcoscenico offerto dall’Expo 2015 è una chance troppo ghiotta, soprattutto perché si tratta di un grande evento focalizzato su alimentazione e nutrizione. Ma bisogna evitare che Milano sia percepita come unico luogo italiano, paradossalmente un ponte verso altre destinazioni enoturistiche europee. Bisogna invece rappresentare tutta l’Italia, anche quei territori con le viticolture minori che rischiano di essere penalizzati e dimenticati maggiormente”. “Gli organi di governo istituzionale, territoriale e imprenditoriale devono attivarsi con più determinazione nel promuovere strategie e processi di collaborazione, cooperazione e competizione che facciamo emergere il notevole potenziale ancora inespresso dai nostri territori vitivinicoli, che la nostra Associazione di oltre 400 Comuni rappresenta solo in parte”, osserva il presidente delle Città del Vino, Pietro Iadanza. Un esempio di buone pratiche, oltre ai casi della Franciacorta, delle Langhe, del Barolo, di Barbaresco, di Marsala, del Salento, di Montefalco e di altri territori, arriva ancora una volta dalle Città del Vino. In particolare dai Comuni del Chianti Classico (San Casciano in Val di Pesa, Greve in Chianti, Tavernelle Val di Pesa, Barberino Val d’Elsa, Castellina in Chianti, Radda in Chianti, Gaiole in Chianti, Castelnuovo Berardenga, Poggibonsi), grazie a una serie d’investimenti e politiche mirate ad accrescere la reputazione enoturistica del territorio. Il tutto valorizzando i rapporti di vicinato e le bellezze artistiche di città come Firenze e Siena, la natura, il paesaggio e l’enogastronomia.
Un bicchiere mezzo vuoto
Turismo del vino. Italia rischia di perdere il treno
Avere le carte per essere i primi al mondo e farsi sorpassare da altri Paesi