
Recentemente ho partecipato a un evento organizzato per presentare uno spumante metodo classico la cui presa di spuma e il cui affinamento sui lieviti si svolgono sott'acqua, sul fondale di un lago alpino, dove il vino "riposa" per 24 mesi.
Meta mediamente difficoltosa da raggiungere, rigorosamente a piedi, attraversando boschi e sfidando qualche ghiaione. Luogo magnifico, piccolo gioiello incastonato tra le montagne ai piedi di un ghiacciaio. Giornata meteorologicamente splendida, anche se decisamente calda anche a 2000 metri di altitudine.
Uno spettacolo entusiasmante offerto ai partecipanti: un elicottero, coadiuvato da tecnici a terra e sommozzatori in acqua, ha fatto riemergere dall'acqua le casse di bottiglie. Agli invitati, professionisti di settore e semplici amatori, è stata data la possibilità di assaggiare sia il prodotto “semi-finito”, appena recuperato dal lago, sia un millesimo precedente dello stesso vino, oltre ad altri del medesimo produttore. Il tutto durante un aperitivo servito nel giardino del rifugio, dove i tavoli di legno erano imbanditi di prodotti locali, con il responsabile della comunicazione dell’azienda e il produttore a disposizione dei partecipanti, per rispondere a domande e soddisfare curiosità.
Gli ingredienti per un evento di successo c’erano tutti: un luogo magico, momenti altamente “instagrammabili” e, da parte dello staff dell’azienda ospitante, il giusto mix tra professionalità e volontà di essere compresi anche dai non addetti ai lavori. Degustazioni molto interessanti, vini con un loro perché. Insomma, una di quelle classiche situazioni in cui, coccolati e “viziati”, ci si predispone non dico a valutare positivamente tutto ciò che si assaggia, ma quanto meno a cercare di capire bene cosa si sta assaggiando prima di esprimere un giudizio.
Tutti contenti? Chiaramente, no.
Durante la discesa verso valle, una coppia dialogava davanti a me. La signora: «Che cretinata questa cosa di produrre vino sott’acqua. Vuoi mettere un bel Brunello?».
Nonostante i 32 °C, mi si è gelato il sangue. Avrei voluto replicare, ma forse sul ghiaione l’unico risultato che avrei ottenuto sarebbe stato quello di essere mandata a quel paese. Avrei voluto semplicemente dire che essere scettici sul significato enologico dell’immersione dei vini in acqua è un diritto - anche se, per esprimere un parere sensato, bisognerebbe prima documentarsi - ma paragonare un metodo classico a un Brunello pare un po’ azzardato già di per sé, figuriamoci se di mezzo c’è anche un processo produttivo così particolare.
Il problema tuttavia non sta nella signora che si è espressa in questi termini, bensì nel modo in cui da decenni il vino viene comunicato (o non comunicato) ai wine lover. Per quanto ci piaccia pensare che i consumatori di oggi sono più attenti, preparati e consapevoli rispetto al passato, le cose stanno così solo per una fetta trascurabile di essi. E lo si va scrivendo e dicendo da tempo, ma la comunicazione del vino ancora si polarizza tra una modalità troppo accademico-didattica e una un po’ approssimativa da social. Nel mezzo ci sono tanti professionisti preparati, che conoscono gli aspetti tecnici del vino di cui parlano ai neofiti e li sanno rendere comprensibili, pur senza banalizzarli. Sono i professionisti che alla signora di cui sopra avrebbero fatto capire, con garbo e senza prosopopea, che stava paragonando mele e pesci spada.
Ci sono, questi professionisti, ma evidentemente ne servono di più. Si tratta di usare una delle armi a nostra disposizione per combattere la disaffezione, purtroppo crescente, nei confronti del prodotto vino. Un'evidenza che, giustamente, preoccupa i produttori.
Editoriale di VVQ 5/2025