I bianchi avanzano e i rossi si ritirano nelle riserve. Non è l’epopea della conquista del west, ma la cronaca del conflitto varietale che agita il Vigneto Italia. Il fronte più caldo è a Nord Est. Sotto la pressione dell’avanzata di Glera (Prosecco), Pinot grigio e ora anche Ribolla gialla, i rossi friulani come Refosco, Schioppettino e Pignolo perdono decisamente terreno. I dati dei vivai mostrano che il rinnovo degli impianti è praticamente fermo e le superfici sono scese sotto al centinaio di ettari per ognuna varietà. L’assedio dei bianchi non è però un fenomeno di frontiera. Caratterizza pressoché tutti i territori vitati del Belpaese. Lasciate le placide acque delle lagune venete e risalendo il corso del Po, ci si addentra nel territorio selvaggio dei Lambruschi padani. Un predominio varietale apparentemente inscalfibile, anche in forza dei record di vendite del vino beverino per eccellenza, il Lambrusco appunto. La recente costituzione della Doc Pignoletto ha però offerto un’alternativa stimolante e redditizia, almeno ai viticoltori del Modenese, dove le numerose conversioni in corso mettono in allarme il novello consorzio della prima Doc sia emiliana che romagnola. Che valuta l’opportunità di un repentino tetto per i nuovi impianti a Pignoletto. A nord ovest il Piemonte resiste nell’immaginario collettivo come terra di grandi rossi. Ma basta scendere dai cru pregiati di Barolo e Barbaresco e superare verso nord il fiume Tanaro per trovarsi in territori dove bianchi come l’Arneis (e l’emergente Timorasso) battono i rossi con una proporzione di 12 a 1. Anche il centro Italia è in fermento. Sull’Adriatico dilagano gli autoctoni Pecorino e Passerina, che rosicchiano spazio al Montepulciano nelle Marche e in Abruzzo. L’Umbria è un caso emblematico. Le fortune della varietà italiana più ricca in tannini, ovvero il Sagrantino, storico vino da messa in terra di santi, sono mutate da una decina d’anni. E molti impianti sono oggi sovrainnestati con Trebbiano e Grechetto. In definitiva i rossi sembrano resistere solo nelle regioni dove mancano alternative bianche forti e competitive. In Toscana, Puglia e Calabria ad esempio, mentre in Sicilia l’autoctono oggi più impiantato non è il Nero d’Avola bensì il Catarratto. L’impatto della globalizzazione dei mercati dà ragione a questa tendenza. Gli spumanti (metodo Charmat) trainano l’export fino ai livelli record registrati quest’anno (5,6 miliardi di Euro, +4% in un anno) e caratterizzano anche il consumo interno. I fermi imbottigliati invece perdono terreno e a soffrire, guarda caso, sono proprio i rossi. Wine Monitor registra la perdita del 6,3% in valore per i Supertuscan (-6,5% in quantità), -8% in quantità per i rossi veneti (ma il valore complessivo tiene), meno 5% per quelli piemontesi (con valori invece in crescita dell’1,8%). È l’effetto di un deciso cambiamento dei gusti e dello stile di consumo. L’Italia conquista quote crescenti nei mercati dove si beve sempre meno a tavola e sempre più negli aperitivi. Non riusciamo invece a crescere nel mercato cinese, dove il colore rosso è favorito per tradizione. I produttori dei rossi hanno da tempo organizzato un fronte di resistenza. Cercando nuove rotte verso mercati inediti, cambiando stile produttivo per favorire bevibilità e freschezza e puntando su vitigni con un limitato tenore di fenoli (alcuni minori riscoperti hanno queste caratteristiche). Oppure agganciandosi al traino della sostenibilità con la conversione al bio, un fenomeno in decisa crescita. Tutto, prima di arrendersi al passaggio definitivo ai bianchi. L’impoverimento varietale nasconde infatti dei rischi. Le preferenze dei consumatori sono volubili, come la fortuna. La moda dei bianchi (color carta) era predominante già negli anni ’80, poi il French paradox ha dato vigore agli antociani contenuti nei rossi, sempre più legnosi nel corso degli anni ’90. Il cambio di rotta del nuovo millennio sembra duraturo, ma ci sono già segnali di cambiamento. Negli Usa il favore accordato dai millennial ai rossi registra già qualche punto in più rispetto alla generazione precedente dei baby boomer. Nel nostro Paese tocca ai Consorzi di tutela governare questa evoluzione, mantenendo il punto di forza tutto italiano della ricchezza di gamma: puntare su un solo colore non conviene nemmeno alla roulette.
Controcanto
SE IL REFOSCO CAMBIA PELLE… Da rosso di grande struttura a bianco aromatico e floreale. Potrebbe essere l’evoluzione di una delle varietà friulane più tipiche: il Refosco dal peduncolo rosso. Una delle ultime entrate nel Registro nazionale (Cod. 487 del 15 maggio 2014) è infatti il Refosco bianco. Un vitigno storico (citato in documenti ufficiali fino al 1863) ritrovato grazie al lavoro di Carlo Petrussi ed Enos Costantini in una pergoletta friulana a Coia di Tarcento (UD). Il lavoro di caratterizzazione è invece del Crea di Conegliano (TV). Cambiare pelle sembra così l’ultima strategia di sopravvivenza per i rossi. Prima di arrendersi all’idea dominante del Friuli Venezia Giulia come terra da grandi bianchi. I pregiudizi però sono pericolosi: in un’altra zona da bianchi come l’Alto Adige trovano crescenti apprezzamenti sia Lagrein che Schiava. Converrebbe anche al Friuli conservare con cura i suoi preziosi giacimenti di rossi autoctoni. Editoriale di VVQ 3/2017, Aprile