Il vino è un piacere. Se non è buono che piacere è?
Se lo chiede anche Paolo Vodopivec, schietto produttore di Vitovska in purezza in una terra difficile come il Carso e presidente del Consorzio ViniVeri, uno dei più solidi sodalizi del variegato movimento dei vini naturali.
Editoriale di VVQ 4/2022
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Assieme al giornalista Sandro Sangiorgi ha scritto il manifesto “La forma e la sostanza. Le luci e le ombre” per dire, con metafore eteree e sinestesie psichedeliche, che occorre smettere di considerare con indulgenza vini che presentano imperfezioni tecniche.
Minimalismo enologico
Che la filosofia del less is more (produrre con sempre meno ingredienti e mezzi tecnici) non può arrivare a fare a meno della qualità. Che la «genuinità» è una componente fondamentale per fare un vino buono, ma non può giustificare «puzze e instabilità».
Giusto: un difetto è un difetto, soprattutto se è definitivo come l’eccesso di ossidazione, la pungente acidità acetica o la stanchezza di vini aspettati troppo a lungo. Ma se è facile definire un vino cattivo, è ben più difficile capire da dove derivi invece la gradevolezza.
Le guide dei vini fanno a gara per cercare di spiegarcelo tutti gli anni. I grandi degustatori spendono una fortuna in vocabolari per ampliare la ruota dei descrittori.
Condizionabili, ma fino a un certo punto
Il mondo della ricerca (di certa ricerca) ricorre a discipline sempre più esotiche (neurologia cognitiva, neurogastrofisiologia…) per cercare il canone enologico definitivo.
Sforzi vani: la qualità organolettica è un mistero che non si può svelare perché ognuno di noi possiede una capacità sensoriale tutta sua. Abbiamo più di 400 recettori per i composti volatili, il vino è la sostanza che ne attiva in maggior numero, ma poi il gusto si forma nel cervello. Viene elaborato in base alla sensibilità e alle esperienze personali. I moniti degli esperti e gli editoriali di VVQ possono condizionarci, ma fino a un certo punto.
Il tradimento nel bicchiere
Anche perché il gusto è il senso più portato al “tradimento”: beviamo oggi vini diversi rispetto a quelli che ci piacevano ieri e berremo vini diversi domani perché conosciamo il mondo attraverso il suo sapore.
Un’ansia di novità che trova soddisfazione nel vino grazie alla forte dose di anarchia che lo caratterizza. Su questo aspetto il contributo dei vignaioli naturali è indiscutibile. Capaci di innescare nuovi trend enologici con la riscoperta di contenitori alternativi come le anfore, la rivalutazione dei lieviti non Saccharomyces, la messa a punto di macerazioni sempre più lunghe sulle fecce…
Opzioni che oggi sono entrate anche in molte cantine convenzionali, rendendo più difficile giocare la carta dell’originalità. E quando il gioco si fa duro, i duri devono puntare sulla conoscenza. È possibile (e non è vietato) infatti produrre vini naturali di qualità nonostante le strette regole autoimposte (magari non tutti gli anni, visti i capricci del climate change). Sapendo però che vincoli troppo stretti mortificano l’impulso all’innovazione, non solo del gusto.
L'ingrediente più importante
Basterebbe rispettare quella che è la regola più peculiare di questo movimento, quella di cercare sempre il contatto diretto tra produttore e consumatore, senza intermediari, per testimoniare la coerenza tra il progetto enologico e la filosofia di chi lo produce. Sono infatti spesso le condizioni di degustazione a definire in maniera rilevante la nostra percezione: i colori dell’ambiente, i suoni, ma soprattutto le persone con cui beviamo.
La convivialità: ecco qual è l’ingrediente che più incide sulla qualità del vino.