Questa volta vi voglio raccontare una piccola ma illuminante storia di disagio enologico famigliare.
Un confronto-scontro professionale che viaggia sempre sottotraccia e che presto potrebbe deflagrare. Le norme per l’etichettatura stanno infatti per cambiare. L’applicazione anche per il vino del Reg. 1169/2011 imporrà dall’anno prossimo l’indicazione obbligatoria degli additivi.
Così il vino non sembrerà più solo il prodotto della fermentazione dell’uva, cosa potrà mai cambiare?
Come raccontare un inghippo normativo senza la noia di un linguaggio troppo formale? Proviamo a immaginare.
Editoriale del numero 8/2021 di VVQ
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Dove si fa il vino?
Alberto e Andrea sono fratelli, anzi gemelli ma probabilmente eterozigoti, uguali ma diversi. Alberto è buono. Andrea è bello. Ad Alberto piacciono i cani di grossa taglia, Andrea preferisce l’indipendenza dei gatti. Solo la passione per il vino li unisce, berlo ma soprattutto farlo. Anche qui però le loro strade si sono divise.
Alberto è un agronomo iscritto all’albo: «il vino si fa in vigneto», dice. Andrea è un enologo affermato iscritto all’Assoenologi: «È in cantina che nascono le etichette master class, tu pensa solo a portarmi uve sane e belle», sostiene. È il derby che contrappone da sempre le due accademie del know-how vitivinicolo, ogni riferimento a fatti o persone realmente esistenti è solo un caso.
Andrea ed Alberto sono assidui lettori di VVQ, attendono con ansia ogni mese (o quasi) la nostra rivista per trovare articoli che sostengano le loro tesi e antitesi. «Hai letto il numero di ottobre?».
Se c'è scritto su VVQ...
«C’è scritto – provoca Andrea – che la valorizzazione aromatica di varietà come lo Chardonnay non dipende dall’uva, i precursori aromatici contano poco, incidono di più pratiche alternative di cantina come la scelta delle tecniche estrattive più corrette in pre-fermentazione».
«L’ho letto con attenzione – replica Alberto – l’hanno scritto degli agronomi (v. “Le pratiche estrattive non sono tutte uguali” a pag. 74 VVQ7/2021) che in realtà sottolineano fin dall’introduzione che la qualità parte dal vigneto e dalla valorizzazione del potenziale delle uve e del terroir».
«Hai sentito piuttosto – insiste Alberto – cosa ha riferito Luigi Moio, neo presidente dell’Oiv nella sua Lectio Magistralis al Cirve dell’Università di Padova?». «Che la vocazione dell’area di coltivazione è il vero pilastro della qualità e della sostenibilità del vino e che in cantina occorre praticare un’”enologia leggera” che rispetti la perfezione geometrica dell’acino di uva».
«L’ho ascoltata con molta attenzione – ribatte Andrea -. Moio è un enologo e la sua preparazione gli fa ammettere come l’innalzamento delle temperature stia determinando casi sempre più frequenti di crolli di acidità e aumento degli zuccheri in vendemmia». «Con la necessità di correzioni enologiche del pH e del grado alcolico in cantina».
Caccia agli additivi tra gli scaffali
«Correttivi e pratiche – ricorda Alberto – che presto dovranno essere indicati in etichetta, direttamente o attraverso sistemi digitali come link o QRCode, ai consumatori non piacerà». «Sugli scaffali dei punti vendita impazza già la caccia ai prodotti “senza additivi”. Questa novità spingerà verso l’estremismo di un vino super-naturale, mi sa che devi cercare un nuovo lavoro».
«Temo che l’ansia di trasparenza dei legislatori europei – commenta con un sorriso sardonico Andrea – non sia placata e che presto dovremo indicare non solo i mezzi tecnici di cantina, ma anche quelli di vigneto: agrofarmaci, fertilizzanti. Ma anche ciò che oggi consideriamo biologico e naturale: biostimolanti, biosolutions, quei feromoni per la lotta biologica con nomi così complicati, persino il caolino a te tanto caro. Mi sa che dovrai cercare un nuovo lavoro anche tu».
Morale: c’era una volta il vino e non era il vino di una volta. Nel finale di questa piccola storia rischia di vincere il lupo cattivo: produttori viticoli lasciati soli ad affrontare troppo sole, vento, acqua ed intemperie portate dal climate change. Etichette sempre più lunghe, in cui però mancheranno i due veri “ingredienti” che fanno il vino: agronomi ed enologi.
penso che ci sia una estremizzazione da entrambe le parti ,anche se io ho sempre fatto vini naturali
Gli additivi enologici e lo scontro enologi-agronomi.
Nella mia azienda l’agronomo si chiama Angelo e l’enologo Bertacchini. Tutti e tre andiamo d’accordissimo insieme. Pensiamo che il terroir sia fondamentale e che l’enologia debba essere vista come l’interpretazione delle caratteristiche intrinseche delle uve. L’enologia coercitiva porta ad una banalizzazione del vino, più additivi vengono usati e più il vino acquista dei connotati di banalità. Quindi un vino ottenuto da sola uva o poco più, presenta dei connotati di unicità e, quindi, mal si adatta ad una produzione su larga scala, dove invece il mood è la standardizzazione del prodotto. Un mediocre enologo potrà pensare che l’unica cosa che conta sia la sanità dell’uva, un eccellente enologo vorrà conoscere la provenienza delle uve, la matrice geologica del suolo, la profondità del suolo stesso, la tipologia di gestione della fertilità etc… perchè è coscente del fatto che i parametri qualitativi dell’uva ( zuccheri , acidità, pH, antociani, polifenoli) sono determinati dalla gestione agronomica. Nel team aziendale ideale, l’agronomo ascolta e cerca di assecondare alle necessità dell’enologo, l’enologo si lascia istruire dall’agronomo circa le potenzialità dell’uva. Nelle aziende più piccole, per garantire la continuità e la coerenza delle scelte produttive, le due figure possono convogliare nella stessa persona. Una figura professionale poliedrica ma al contempo altamente specializzata: l’agro/enologo.