
Il simpatico acronimo anglosassone NoLo identifica la produzione di vini senza (No) o con bassa (Lo, da Low) gradazione alcolica; parliamo di un mercato globale trainato soprattutto dai consumi della generazione Z e dei millennial, che si prevede in crescita di circa un 11% per i prossimi 10 anni, con una leggera prevalenza per la tipologia a zero contenuto alcolico.
A prescindere dai gusti personali, se questa è la tendenza stimata è dovere della ricerca viticola ed enologica cercare di coadiuvarla per ridurre i costi di produzione e aumentare il gradimento del prodotto finale.
Un po’ stranamente, fino ad oggi l’attenzione si è quasi unicamente accentrata sulle metodologie di cantina utili alla de-alcolazione parziale o totale; tuttavia, da viticoltori testardi ci chiediamo se non sia più che logico ritenere che un NoLo possa essere “preparato” in vigneto rendendo, ad esempio, meno gravoso e oneroso l’intervento di cantina e migliorando le caratteristiche finali del prodotto.
In un lavoro di sintesi recentemente pubblicato dal nostro gruppo di ricerca abbiamo cercato di sviscerare questi aspetti, partendo da ciò che pare essere la soluzione più semplice e logica: se devo limitare l’accumulo zuccherino nelle uve, non mi resta che aumentare proporzionalmente la resa in uva utilizzando tecniche note, come potature manuali “ricche”, potatura meccanica, potatura “minima”, etc.
Ma è proprio vero che per ridurre l’accumulo di zuccheri occorre forzatamente aumentare la produzione?
Pensiamo di no: a parità di resa, il grado zuccherino finale può essere contenuto creando una limitazione voluta e calibrata della funzionalità della chioma e, anche qui, gli strumenti sono numerosi: defogliazioni o cimature drastiche tardive, irrigazione tardiva, utilizzo di reti, antitraspiranti o fitoregolatori esogeni, impiego di coperture agrivoltaiche. Tuttavia, se il contributo di “vigneto” si limitasse a questo sarebbe, a nostro avviso, riduttivo e non sufficientemente ambizioso.
È noto che l’assenza o la presenza di un ridotto volume alcolico rende assai difficile (per taluni impossibile!) il raggiungimento di quella complessità e personalità che ci si attende nel vino finito. La domanda, peraltro, sorge spontanea: sempre agendo in campo, è pensabile, da un lato, limitare il grado zuccherino e dall’altro creare invece condizioni favorevoli che possano condurre a una materia prima con minore acidità, aumentato corredo fenolico e aromatico?
In altri termini è possibile “disaccoppiare” la maturazione zuccherina da quella, essenzialmente, dei metaboliti secondari?
Da inguaribili ottimisti, pensiamo che i margini di manovra siano ampi e riconducibili a due direttrici principali: (i) i modelli stagionali di accumulo dei principali costituenti dell’uva (ad esempio, potassio, acidi organici, quercetina, calcio, metossipirazine, carotenoidi, catechine e tannini) differiscono da quelli dell’accumulo degli zuccheri, consentendo una manipolazione più mirata e “differenziale”; (ii) mentre l’accumulo degli zuccheri è principalmente regolato dalla fotosintesi dell’intera chioma, la sintesi dei metaboliti secondari dipende spesso dalle condizioni microclimatiche di specifiche zone della chioma, come la zona fruttifera, che possono essere oggetto di alterazioni specifiche.
In sintesi, il "vigneto" è pronto a svolgere il proprio ruolo.
Editoriale di VVQ 7/2025