Ricerca e comunicazione: due attività umane che dovrebbero viaggiare in stretta connessione ma che invece spesso imboccano binari diversi. La ricerca decodifica fenomeni e cerca soluzioni alle criticità, qualsiasi sia il campo di applicazione. La comunicazione dovrebbe trasferire motivazioni e risultati della ricerca al comune cittadino, consentendogli di comprenderli. Il tutto senza distorsioni, mistificazioni o demagogia.
La recente esperienza della pandemia ci ha insegnato molto su questo fronte. E anche la crisi climatica, per ovvi motivi strettamente connessa all’agricoltura, viene spesso comunicata in modo superficiale: tanto le minimizzazioni quanto i sensazionalismi da titolo “genera-panico” rappresentano un problema, perché allontanano l’opinione pubblica dalla comprensione e dall’assunzione di responsabilità, che invece generano comportamenti virtuosi in grado di incidere positivamente sulla gestione delle criticità legate al climate change.
Ne abbiamo parlato con Marco Merola, che della comunicazione dei temi legati alla crisi climatica ha fatto une vera a propria missione di vita e che dall’estate 2024 ha assunto il ruolo di Communication Specialist dell’Area risorsa irrigua presso il Crea Ricerca.
Di crisi climatica si deve parlare
Marco, coma nasce la tua “passione” per i temi legati alla crisi climatica?
«Dal 2017 ho iniziato a occuparmene in maniera totale, in particolare con il webdoc Adaptation.it, ma anche attraverso altre attività di informazione e divulgazione, che si sono concretizzate su varie piattaforme. Durante il lockdown, per esempio, insieme allo stesso gruppo di professionisti che collabora ad Adaptation.it, ho realizzato una serie podcast per Amazon Audible, dal titolo Adaptation Italia, dove abbiamo raccontato storie virtuose di iniziative e azioni di adattamento al cambiamento climatico in cui ci siamo imbattuti in varie regioni italiane. Non era consentito viaggiare all’estero e questo ci ha portato a focalizzarci su quanto stava accadendo all’interno dei confini nazionali, scoprendo moltissime storie che meritavano di essere portate all’attenzione del pubblico e che invece spesso restavano nell’ombra».
Ma non è solo come giornalista che ti occupi di questi temi.
«In effetti no, tratto la materia climatica e ambientale con molteplici strumenti e in vari ambiti. Sono docente in due master universitari, uno al Politecnico di Torino e uno all’Università di Siena e lavoro con il mio team per creare “prodotti” di comunicazione, all’interno di progetti di ricerca internazionali che hanno per oggetto il climate change. A maggio 2024 ho lanciato in Liguria la prima Climate School rivolta a tutta la popolazione (inclusi i bambini) di 5 comuni della provincia di Imperia e dopo qualche mese ho assunto la direzione scientifica del festival Cinema e Ambiente che si svolge in Abruzzo. Inoltre, io e il mio gruppo di lavoro siamo stati coinvolti nell’organizzazione della prima mostra italiana dedicata al cambiamento climatico, tutt’ora in corso a Torino a Palazzo Madama, intitolata “Change! Ieri, oggi domani. Il Po”. Visitabile fino al 13 gennaio 2025, la mostra racconta l’area del Po da un punto di vista storico, artistico e scientifico. I territori in cui scorre il più grande fiume d’Italia sono infatti considerati un hotspot del cambiamento climatico».
Ricerca e comunicazione: dove sta il corto circuito?
«Tutto ciò che è scienza e ricerca andrebbe raccontato al comune cittadino con taglio divulgativo ma con contenuti di qualità. E purtroppo non sono molti i divulgatori in grado di farlo in maniera efficace. Un buon modo per riuscirci è quello di essere in continuo contatto con il mondo accademico, traendo da esso informazioni di prima mano, verificabili alzando il telefono e chiamando il ricercatore. Poi, ovvio, bisogna interpretare e “tradurre” in maniera corretta i contenuti, rendendoli comprensibili al grande pubblico. In Italia sono davvero pochi i divulgatori scientifici con una formazione solida in termini di comunicazione (quindi, non necessariamente un background universitario scientifico) e questo comporta che, talvolta, temi importanti come l’agricoltura e il climate change siano appannaggio di giornalisti generalisti abbastanza a digiuno della materia. Il risultato è che le informazioni passano spesso in modo altamente inesatto e, quel che è altrettanto grave, sfornite del necessario contesto. Raccontare la crisi climatica non è semplice, dobbiamo stare attenti a non sminuire ciò che sta accadendo ma al contempo a non demotivare le persone, inducendole a non fare nemmeno quel poco - o tanto - che possono, che invece è di fondamentale importanza per invertire i trend. All’opinione pubblica occorre spiegare in modo preciso e documentato cosa sta accadendo, come si possa reagire e perché farlo».
Il tema “forte” dell’acqua
Marco, ci parli del tuo incarico in Crea Ricerca?
«Il Crea è dotato di una sua struttura dedicata alla comunicazione, che svolge un ruolo fondamentale di trasferimento delle attività di ricerca condotte all’interno delle varie sedi italiane dell’ente, su innumerevoli argomenti e filoni. Stiamo parlando di qualcosa come 1500 ricercatori dediti quotidianamente all’avanzamento dell’agricoltura italiana: una vera sfida comunicare in modo efficace e fruibile i risultati di questa imponente attività. Si tratta, di fatto, del più grande ente di ricerca in ambito agricolo attivo in Italia, che lavora in sinergia col Masaf. Dunque, nel momento storico in cui gli impatti del climate change si sono fatti più violenti e frequenti anche per quanto riguarda la disponibilità di risorsa idrica, l’Area risorse irrigue del Crea ha voluto potenziare ancora di più la propria comunicazione avvalendosi del mio supporto».
Per quali motivi?
«L’agricoltura è messa spesso sotto accusa per l’impiego di acqua a scopo irriguo. E se da un lato è innegabile che la ricerca debba focalizzarsi sempre di più sull’efficientamento dei sistemi irrigui e sull’uso sostenibile dell’acqua e dei reflui depurati in agricoltura (anche in viticoltura), perché sappiamo tutti che l’acqua dolce è una risorsa in rapido depauperamento, dall’altro i cittadini devono prendere coscienza di due fatti fondamentali. Il primo è che la loro alimentazione dipende dagli agricoltori, il cui lavoro deve essere compreso, innanzitutto, e una volta compreso anche rispettato. Il secondo è che le abitudini alimentari di ciascuno di noi indirizzano le scelte produttive. Quando si dice che “mangiare è un atto politico” si dice il vero. Insomma, nell’impatto che l’attività agricola ha sul consumo di acqua dolce c’è un’indubbia corresponsabilità dei consumatori. Se non c’è domanda, non c’è offerta».
In che direzione dobbiamo andare, in ultima analisi?
«Bisogna entrare nell’ordine di idee che le rivoluzioni vanno fatte perché è la natura che ce lo sta chiedendo. Da comunicatore dico che bisogna allargare gli orizzonti e non solo raccontare ciò che già è stato fatto, i casi virtuosi cui facevo riferimento sopra, ma anche gettare uno sguardo al futuro, prendendo a esempio azioni e strategie messe in campo in altre parti del mondo, in contesti colturali e culturali diversi dal nostro. L’opinione pubblica offre il suo lato migliore se viene coinvolta in un dibattito sano, basato su oggettività e consapevolezza. Dobbiamo tenere tutti a mente che la transizione è non solo possibile ma indispensabile».
Articolo tratto da VVQ n. 8/2024