Piwi (Italia) sia

(cortesia: Azienda Agricola Maria Luisa Marchetti - Teglio, vigneto Solaris, quota 960 slm)
Il battesimo il primo dicembre a San Michele all'Adige dell'associazione di riferimento per i produttori di vini da varietà resistenti. L'impegno del presidente in pectore Marco Stefanini e le esperienze dei viticoltori ed enologi che li utilizzano

Oggi esiste Piwi International, domani (piuttosto vicino, probabilmente per la fine dell’anno), ci sarà Piwi Italia: nasce dall’esigenza di creare una struttura nazionale che diventi referente unico e collettore delle esperienze maturate nelle associazioni sul territorio.

I gruppi regionali come Piwi Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Trentino, Alto Adige e Veneto erano sorti in precedenza sulla spinta delle diverse esigenze locali, nel momento in cui veniva via via autorizzata la viticoltura resistente: oggi le sensibilità sono cambiate, e l’esigenza di una dimensione sovraregionale è diventata più forte.

Marco Stefanini

Progetti condivisi, obiettivi, mission, ma anche l’utilizzo e la gestione del marchio di riconoscimento a livello internazionale: al momento è in fase di formalizzazione lo statuto e Marco Stefanini, Responsabile dell’Unità Genetica e miglioramento genetico della vite presso la Fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige, ha dato disponibilità a ricoprire l’incarico di Presidente dell’ente costituendo. Nel Consiglio di Piwi Italia parteciperanno due membri di ogni Associazione regionale, a prescindere da quanti soci conti la delegazione. Una riforma che nasce da una presa di coscienza e dalle maggiori responsabilità che oggi gli stessi viticoltori sentono, in un momento in cui l’attenzione per i vitigni resistenti è aumentata. Obiettivo, oltre alle attività di vigilanza sulla corretta applicazione del marchio “piwi”, è la valorizzazione della filosofia di fondo, ovvero il sostegno e la promozione di alti livelli qualitativi e di sistemi di comunicazione efficaci e coerenti.

Articolo tratto da VVQ 7/2023

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«Mi piacerebbe che Bronner, Solaris e così via, ovvero le varietà resistenti, diventassero in futuro un veicolo per la valorizzazione del territorio: la varietà “nuova” o valorizza il territorio in termini di sostenibilità e di qualità, o altrimenti rischia di diventare un sarcofago che, anche se commercialmente può trovare una sua collocazione, in realtà non sarà destinata a durare nel tempo - spiega Marco Stefanini -».

«Il territorio non muta ed è vivo se sottoposto ad una evoluzione culturale e antropologica: l’uomo cambia, cambiano i sistemi di allevamento, cambiano le varietà coltivate e il territorio viene valorizzato in forza di queste dinamiche. Non è una mutazione puntiforme che fa l’evoluzione, ma il rivolgimento di tutti i caratteri in cui alcune specie prendono il sopravvento perché meglio si adattano». La missione è quindi la diffusione di questa filosofia: “spiegare a chi vuole ascoltare, a tutti coloro che non sono pregiudizialmente contrari”.

I vitigni resistenti hanno un legame profondo con il terroir (cortesia: Terre di Ger - Pravisdomini, PN)

Piwi: lo stato dell’arte

36 varietà iscritte nel Registro Nazionale della Vite, solo parzialmente autorizzate nelle regioni, e circa 1.050 ettari vitati in Italia secondo la stima 2021: la solo Ungheria è cinque volte tanto (5.438 ettari vitati Piwi), seguita dalla Germania con 2.593 ettari. Nel nostro Paese numeri quindi ancora dimensionalmente limitati in valore assoluto, ma soggetti, nel confronto year-on-year dell’ultimo triennio, a un incremento importante. L’interesse cresce e si piantano più barbatelle: è il Veneto che ha la maggiore superficie vitata piwi (256 ettari), seguita dal Friuli Venezia Giulia (230 ettari), Trentino (67 ettari), Alto Adige (51 ettari), Lombardia (67 ettari) e Abruzzo (10 ettari).

Sono queste le regioni in cui è ammessa la viticoltura resistente, a cui si sono aggiunte recentemente il Piemonte e il Lazio. La situazione in Italia, nonostante i segnali positivi, resta complicata, con un percorso che, al pari dei gamberi, sembra fare un passo in avanti e due indietro: la Politica Agricola Comune dal dicembre 2021 ha ammesso nei disciplinari Doc i vini ottenuti dai vitigni resistenti, e ha messo in soffitta il Decreto Legislativo del 2010 che aveva destinato queste uve alle sole IGT, in quanto “non utilizzabili per i vini a denominazione di origine”. Fin qui tutto bene e tutto chiaro.

Ma, perché un “ma” non manca mai, una difformità interpretativa tra i provvedimenti del PAC e la Legge 238 del 2016 (Testo Unico della Vite e del Vino), ha nuovamente acceso il semaforo rosso all’ammissione nelle Doc, assegnando alle regioni la competenza in tema legislativo, in forza dell’accordo del luglio 2002 per la classificazione delle varietà di vite. Un po’ come nel gioco dell’oca: si torna al punto di partenza. Tutto questo mentre mezza Europa (Ungheria, Germania, Austria, Slovacchia e Repubblica Ceca) dal punto di vista normativo tratta vitigni resistenti e vitigni da Vitis vinifera alla pari. E la Francia, nel mentre, dopo anni di ricerche e sperimentazioni in campo, ha rilasciato green light per l’Aoc Champagne all’impiego di vitigni resistenti: percentuali ammesse contenute, dal momento che il Voltis potrà occupare fino al 5% dei vigneti di una singola proprietà e concorrere fino al 10% nella cuvée dello Champagne prodotto. Ma sempre di ammissione si tratta, che acquista maggior vigore se parliamo proprio di Francia.

C’è interesse per i piwi nella comunità dei produttori? Lo abbiamo chiesto a Gabriele Valota, ricercatore ed enologo, consulente esperto di viticoltura resistente: «Noto un interesse sempre crescente verso il mondo piwi e quello delle varietà resistenti/tolleranti alle malattie fungine, soprattutto in regioni dove queste varietà non sono ancora autorizzate. Diversi produttori, dopo aver assaggiato vini da varietà piwi, mi chiedono informazioni sull’effettiva resistenza alle malattie fungine, sulla vocazionalità di queste varietà e sulle possibili tecniche di vinificazione utilizzabili».

Mis-informazione

La confusione per il consumatore esiste e persiste: la cosiddetta falsa scienza e la scarsa confidenza con naming che ancora non sono patrimonio comune, non fluidificano il processo culturale. OGM, tossicità della malvidina dicogluside, eccessiva produzione di metanolo in fermentazione, sensazioni gustative di selvatico, quel foxy che riaffiora periodicamente anche tra i commenti degli esperti. Detrattori che guardano con sospetto a questo nuovo mondo: «L’unica arma che abbiamo è far assaggiare - chiosa Stefanini -. L’annata 2023 sta mettendo a dura prova il vigneto Italia e sicuramente ha accresciuto l’interesse verso i piwi. Spero per il futuro che l’iter di osservazione e di autorizzazione dei vitigni resistenti possa essere più celere».

La Fondazione Mach ha organizzato a partire dal 2021 la prima rassegna nazionale sui vini da vitigni resistenti: un concorso che, supportato dal Consorzio Innovazione Vite e dall'associazione PIWI International, nell’ultima edizione ha registrato la partecipazione di 44 cantine italiane con 82 vini in gara in sei categorie (rossi, bianchi, orange, frizzanti, charmat, metodo classico), valutati da una commissione di esperti qualificati e supportata dagli studenti del corso enotecnico.

Andrea Panichi, docente del Centro Istruzione e Formazione della Fondazione Mach, Responsabile del Corso ENOtecnico e del Comitato della rassegna nazionale sui vini da vitigni resistenti, rappresenta un osservatorio privilegiato:

«Nella prima rassegna nazionale sono stati valutati vini che hanno portato a risultati disomogenei. I vini bianchi, in genere forse perché da varietà tra le più coltivate, erano apparsi più eleganti, puliti, pronti rispetto ai rossi. Nella seconda rassegna il passo è cambiato: una parziale revisione dei vini sia a livello di tecnica enologica (di lavorazione quindi delle uve) sia a livello di affinamento, anche sulla base dei feedback che abbiamo fornito al termine della prima edizione, ha visto la presenza di vini qualitativamente più interessanti».

«Nel raffronto tra le due edizioni c’è stato un passo in avanti nella ricerca di maggiore qualità: i vini rossi hanno sicuramente necessità di più tempo per potersi esprimere correttamente, ma ci aspettiamo molto dalla terza edizione del prossimo novembre. Credo che sui bianchi si possa raggiungere un livello più alto nel breve periodo perché non ci sono grandi affinamenti, ma anche sui rossi contiamo di registrare importanti miglioramenti».

Attenzione tuttavia al terroir dove allevare i vitigni piwi, perché il rischio è di impiegarli – per la loro capacità genetica di migliore adattamento - solo in contesti non idonei per i vitigni tradizionali e quindi sfruttabili dalla viticoltura resistente. I vitigni resistenti hanno in realtà un legame profondo con il terroir, e se vengono allevati in zone vocate (e non nei fondivalle, in aree dove c’è molta umidità o vicino ai centri abitati) esprimono un corredo di sensazioni sorprendenti.

Alessandro Sala

Alessandro Sala, enologo e titolare della cantina bergamasca Nove Lune, è Presidente di Piwi Lombardia, nata nel 2017, e ha fatto della qualità il suo mantra: «Puntiamo a un marchio piwi legato a un disciplinare di qualità. Credo che chi mette in etichetta il marchio piwi debba fare riferimento ad un disciplinare preciso. Ad oggi non è stato definito ancora un accordo in questo senso, ma per me è un obiettivo prioritario».

Il mercato

C’è interesse per i piwi da parte del consumatore? Qual è l’identikit del degustatore che si avvicina ai vini da vitigni resistenti? E, soprattutto, i giovani hanno interesse?

I giovani e il vino sembrano infatti essere un mondo a sé, che sovverte i luoghi comuni: l’elaborazione dell’Osservatorio dell’Unione Italiana Vini del 2022 ha messo in luce come negli ultimi dieci anni i giovani tra i 18 e i 34 anni bevano meno vino anche in termini di consumo quotidiano, ma la contrazione raggiunge il -23% nella fascia dei 35-44enni, a fronte di un incremento dei consumi nelle fasce più mature.

Interrogativi che abbiamo rivolto a Luca Gonzato, che nasce come appassionato nei confronti della viticoltura resistente per essere oggi considerato uno dei massimi esperti, titolare di un sito internet che rappresenta una fonte autorevole di studio e di documenti per il settore e che in futuro ha in animo di aprire un punto vendita e un e-commerce dedicato a questi vini.

Luca Gonzato

«La chiave di interesse è il tema della sostenibilità. Oggi tutti parlano di sostenibilità, ma qualche anno fa non era un tema così inflazionato. Scoprendo i piwi e la loro gestione in termini di trattamenti diversa rispetto ai tradizionali e ai biologici stessi, ho sentito l’esigenza come consumatore di provare ad avvicinarmi ad un prodotto più sostenibile».

Il segreto del successo dei vini da vitigni resistenti potrebbe essere quindi la salubrità, in una nuova frontiera “oltre” il biologico: «Come degustatore mi ha affascinato la scoperta di vini diversi negli aromi rispetto ai vini più tradizionali. Sono in una nicchia della nicchia, ma vedo una possibilità di crescita. Mi piacerebbe che fossero i giovani ad avvicinarsi, a cui andrà spiegato il prezzo».

«Il target di riferimento è un pubblico curioso, che abbia voglia di assaggiare qualcosa di diverso, magari in abbinamento alla nouvelle vogue della ristorazione, la cucina etnica». Nella carta dei ristoranti sono ancora pochi i vini da piwi presenti, con un posizionamento medio-alto: ma siamo ancora all’inizio, la sfida sarà quello di poter raccontare questo percorso sperimentale.

Ci aspetta quindi una strada importante da scrivere, come si dice in questi casi: stay tuned!


Venerdì 1 dicembre 2023 si svolgerà la cerimonia di premiazione della terza rassegna nazionale dei vini Piwi organizzata dalla Fondazione Edmund Mach. Clicca per info.


 

Articolo tratto da VVQ 7/2023

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Piwi (Italia) sia - Ultima modifica: 2023-11-17T09:12:21+01:00 da Paola Pagani

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