Stefano Capelli, enologo di Ca' del Bosco Quando André Dubois, rinomato chef de cave di case leggendarie dello Champagne, da Taittinger a Moët & Chandon, voluto da Maurizio Zanella alla guida tecnica di Ca’ del Bosco, scomparse improvvisamente, Stefano Capelli, enologo ancora giovanissimo, si ritrovò a gestire l’ormai conosciuta cantina franciacortina. Era il 1990. Lo stesso giorno in cui morì, Dubois avrebbe dovuto iniziare il tradizionale tirage delle bottiglie insieme a Stefano, l’allievo prescelto al quale aveva trasmesso le preziose conoscenze di una vita e un metodo di lavoro che Stefano Capelli ha saputo custodire, sviluppare e trasmettere. Metodo che permea e sottende ancor oggi il lavoro del team di Ca’ del Bosco e che rappresenta l’importante valore aggiunto di questa casa vitivinicola. Sono passati più di vent’anni da quel passaggio di testimone, da caparbio e appassionato enologo Stefano Capelli ha saputo metabolizzare e dare un seguito significativo a quelle conoscenze scrivendo importanti pagine della casa viticola franciacortina. Stefano Capelli, il maestro, André Dubois, un giorno la scelse per trasmetterle il sapere enologico di una vita… Gli anni trascorsi con André rimangono indimenticabili. Con lui in cantina, tra i vigneti della Champagne e della Franciacorta, maestro silenzioso e attento… Dubois non mi trasferiva il suo savoir-faire a tavolino, con la sua ricetta scritta, ma direttamente in cantina, mentre lavoravo. Osservava il mio lavoro e, se tutto era svolto correttamente, passava anche una giornata intera senza dirmi nulla; allo stesso tempo, il maestro era sempre pronto a interrompere improvvisamente il suo lungo silenzio non appena riteneva che dovesse darmi qualche nuovo insegnamento. André era convinto che un enologo non avrebbe mai potuto diventare un vero chef de cave, un leader, senza prima aver praticato a fondo il lavoro di cantina. Questo significava lavorare gomito a gomito con i cantinieri e vivere in prima persona ogni fase dell’elaborazione. L’incontro con Dubois fu assolutamente aleatorio. Il caso volle che Mario Gamba, cugino di famiglia, lavorasse come maître in un rinomato ristorante in Germania dove Maurizio Zanella aveva portato i suoi vini, nel suo infaticabile intento di promuovere le sue produzioni. Avevo un diploma di perito agrario in tasca e Mario mi consigliò di propormi in Ca’ del Bosco: lavorare in un’azienda vitivinicola mi attirava parecchio… L’incontro apparentemente non portò risultato, Zanella cercava un enologo da affiancare al maestro francese, io quella qualifica non la possedevo. Zanella si mostrò, tuttavia, costruttivo consigliandomi di continuare i miei studi. A Conegliano, nel 1986 mi specializzai in enologia e con il diploma in mano bussai nuovamente alla porta di Ca’ del Bosco. Il posto di enologo era ancora vacante? No! Purtroppo era già stato scelto un neolaureato americano... Per premiare però la mia determinazione, soddisfatto forse del fatto che avevo dato seguito al suo consiglio diplomandomi, Zanella mi propose uno stage. In qualità di cantiniere cominciai così a lavorare in Ca’ del Bosco. C’era il francese, l’americano e… il bergamasco. Non so come fu ma il bergamasco ebbe la meglio sull’americano! Dubois notò la mia voglia di fare, la mia determinazione e mi volle al suo fianco. Ca’ del Bosco era, a quel tempo, un’azienda emergente. All’inizio degli anni 80 Ca’ del Bosco si stava affermando con i suoi Franciacorta e Maurizio creò i primi top wines dell’azienda: lo Chardonnay, il Pinéro e il vino taglio bordolese a cui diede il suo nome, il “Maurizio Zanella”. S’iniziavano a produrre dei Franciacorta “di spessore”, si raccoglievano i primi significativi frutti del lavoro svolto da Dubois dal 1979. Nel 1986 Ca’ del Bosco conduceva 50 ha vitati per una produzione intorno alle 350 mila bottiglie; i dipendenti erano poco più di una decina. Oggi i numeri hanno tutt’altro peso con 1 milione e mezzo di bottiglie all’anno, 160 ha di vigneti e un team di oltre 100 persone. Anche la Franciacorta era una realtà emergente. Sappiamo che la viticoltura nelle nostre terre fu portata dai romani, ma per tutto il Medioevo fino al secondo Dopoguerra rimase un’esclusiva dei nobili locali. I contadini del luogo trovavano meno faticoso e più redditizio lavorare le terre di pianura confinanti con le nostre colline. In Franciacorta la storia enologica è stata scritta negli ultimi cinquant’anni da imprenditori che ben sapevano il valore di un investimento e l’importanza di procedere per obiettivi e per risultati. La sfida è stata ardua ma due dei tre ingredienti fondamentali del produrre buon vino − histoire, terroir, passion − c’erano. Mancava sì la tradizione enologica, ma il terroir franciacortino si dimostrò presto straordinario e la mancanza di storia fu compensata dalla forte passione, dalla voglia di emergere e di far parlare delle proprie produzioni. Per pionieri come Zanella, la passione è stata una sorgente emotiva che ha stimolato il suo modo di fare le cose, di pensare diversamente. Dubois portò in Ca’ del Bosco quelle conoscenze enologiche quella tradizione che mancavano, costruì le basi, le solide fondamenta sulle quali l’azienda si è in seguito sviluppata. Dal 1990, alla guida della cantina di Ca’ del Bosco. Con Maurizio Zanella abbiamo cercato di portare avanti da soli il nostro modo di lavorare e di svilupparlo al meglio partendo dagli insegnamenti che Dubois ci aveva trasmesso. Quello che ha animato il nostro modo di crescere è la volontà di raggiungere uno stile nelle nostre produzioni, di affermare un profilo del vino che fosse la miglior espressione “in classico” delle varietà Chardonnay e Pinot Nero su questo territorio. Ritengo che il lavoro svolto negli ultimi anni abbia dato i suoi frutti, portando risultati concreti, significativi e riconosciuti. Da un maestro dello Champagne nascono le vostre bollicine. È lecito il paragone con questo glorioso vino? In comune con lo Champagne abbiamo il metodo che i francesi hanno inventato più di trecento anni fa… Avendo avuto un rinomato chef de cave champenois, il confronto con lo Champagne era inevitabile. Da sempre abbiamo degustato e comparato i nostri vini con grandi dello Champagne. Ciascuno deve avere modelli in testa e il nostro era ben preciso: lo Champagne. Uguale il metodo, ma… …molto diversi i vini. Innanzitutto per latitudine, noi siamo più a sud e il clima è decisamente diverso, le nostre uve non hanno difficoltà a raggiungere ogni anno la maturazione tecnologicamente perfetta, ovvero un grado alcolico potenziale di circa 11,5° e un’acidità di 7-8 g/l. La geologia dei suoli è un altro carattere che ci differenzia: il nostro, di origine morenica, è ricco di scheletro, mentre, quello della Champagne, costituito da marna calcarea, caratterizzato dalla presenza di gesso a poche decine di centimetri di profondità. Per ultimo, gli uvaggi, che ci accomunano nello Chardonnay e nel Pinot Nero, mentre il terzo vitigno in Franciacorta è il Pinot Bianco e in Champagne è il Pinot Meunier. Questo ci differenzia negli assemblaggi dei vini-base: nei Franciacorta domina lo Chardonnay per più del 70%, mentre negli Champagne il Pinot Nero e il Pinot Meunier, che rappresentano circa i 2/3 e solo 1/3 è Chardonnay. Se proprio volessimo confrontare un nostro Franciacorta con uno Champagne, la scelta dovrebbe ricadere su un “Blanc de Blanc”. Ci distingueremmo per la maggiore complessità aromatica, il calore, lo spessore e la maggiore densità. I nostri Franciacorta sono meno acidi, più intensi d’aroma e più vinosi. Nello Champagne dominano le note floreali e agrumate, spicca la sensazione acida, equilibrata con lo zucchero della liqueur. Il terroir gioca un ruolo decisivo… Lo gioca anche l’uomo! Diversità e comunanze che ci hanno permesso di sviluppare un prodotto originale, uno stile che per molti versi si avvicina parecchio a quello di alcuni produttori della Champagne, per finezza degli aromi e fragranza. Tant’è che alcune grandi case di Champagne utilizzano i nostri Franciacorta come confronto; sento dire che importatori e distributori di Champagne in Italia assaggiano e si misurano con Ca’ del Bosco… Il Franciacorta DOCG potrà mai raggiungere la celebrità dello Champagne? Un confronto con un simile colosso non è proponibile, stiamo parlando di 380 milioni di bottiglie di Champagne prodotte ogni anno, su una superficie vitata di 33.500 ettari. In Franciacorta si producono circa 15 milioni di bottiglie all’anno, con una potenziale crescita che potrebbe arrivare poco oltre i 20 milioni di bottiglie prodotte, tenendo conto che possiamo contare su una superficie vitata di circa 3.000 ettari. Gli importanti volumi produttivi dello Champagne contribuiscono fortemente a dare riconoscibilità al prodotto, lo trovi, lo conosci, lo consumi… Ciò non toglie che in Italia il Franciacorta DOCG sia un vino ormai affermato. Fino a pochi anni fa ci fermavamo a un consumo poco più che regionale e l’Emilia-Romagna rappresentava già una terra di confine per i nostri vini. Oggi sempre più Paesi lo richiedono, mi viene in mente il Giappone, dove il Franciacorta DOCG è un vero e proprio must perché si abbina ottimamente alla cucina nipponica. Penso che il futuro della Franciacorta sia quello di raccontarsi in giro per il mondo: ci siamo, anche se siamo ancora agli inizi! Serve tempo. La Franciacorta in meno di dieci anni ha quasi raddoppiato la propria superficie vitata: è evidente che bisogna consentire alle viti di crescere e di raggiungere quell’età che permetterà loro di produrre un frutto straordinario. Bisogna anche dare tempo ai giovani produttori, che si sono insediati, di maturare quelle conoscenze che permettano loro di lavorare in Franciacorta nel miglior modo possibile; per questo, mentre le vigne cresceranno, i produttori dovranno dedicare tempo all’apprendimento, viaggiare, confrontarsi al fine di sviluppare una conoscenza che consenta loro di interpretare al meglio il frutto in pianta e scoprire come esaltarlo in vinificazione. Credo che gli uomini di Ca’ del Bosco, questa “gavetta” l’abbiano fatta, anche se, come recita il proverbio, “d’imparare non si è mai finito…”! Torniamo a quel 1990… Appreso il metodo di lavoro, era ormai giunto il momento di avere nuove vigne che potessero esprimere al meglio le potenzialità del nostro territorio. Alla fine degli anni Ottanta Maurizio Zanella decise di rivoluzionare il modo di condurre le vigne. Fece i primi investimenti con impianti ad alta densità: 10.000 ceppi per ettaro. Piantammo le viti in diversi comuni della Franciacorta con l’obiettivo di produrre, grazie alla diversità geologica e microclimatica di ciascuno di questi appezzamenti, vini di grande fragranza, espressività aromatica, complessità, vini poi da assemblare per ottenere prodotti indimenticabili: volevamo trovare ciò che Dubois aveva sempre ricercato, vini caratterizzati da estrema florealità, agrumosità, mineralità e complessità. Grazie alla lungimiranza di quei giorni, oggi Ca’ del Bosco conduce vigneti con un’età media di 25 anni. Se a ciò si unisce la grande esperienza maturata in quarant’anni di vinificazione, si può facilmente comprendere perché oggi siamo in grado di produrre grandi Franciacorta e di fare la differenza. Si sente, vi sentite appagati? Abbiamo sviluppato una metodologia di lavoro consolidata, a livello sia viticolo sia enologico e oggi riusciamo a produrre vini che esaltano questo nostro modo di lavorare, vini con un’eleganza e una finezza che riconosci. Ma questo non vuol dire aver raggiunto un punto d’arrivo, piuttosto una quadratura del cerchio, il coronamento di quarant’anni − per me 27 − di appassionato lavoro in vigna e in cantina. Ottenere vini di tale spessore, poterli riprodurre negli anni mantenendo un alto livello nella qualità, non è facile; come non lo è coniugare in un unico metodo di lavoro tradizione e innovazione, l’empirismo di Dubois e le conoscenze scientifiche che ho maturato studiando, viaggiando per il mondo, confrontandomi con altri colleghi. Unire tutto questo significa sviluppare una vinificazione molto espressiva, particolare… L’innovazione. La forza degli uomini di Ca’ del Bosco è da sempre quella di amare il proprio lavoro. Questo è un merito che va riconosciuto a Dubois che aveva sviluppato un’invidiabile capacità di condurre le persone, di motivarle, di premiarle per l’impegno profuso. Un savoir faire che lui è riuscito a trasmettermi e del quale oggi sono custode. Questo ci porta ad appassionarci a quello che facciamo e ad affrontare i problemi, i punti critici cercando d’innovare, di sviluppare sempre soluzioni nuove. Nel 1985 la nostra cantina si estendeva su 5.000 m², oggi su 25.000 m²; ci sono stati quindi continui ampliamenti, ciascuno caratterizzato da applicazioni tecnologiche all’avanguardia, che hanno portato un valore aggiunto ai nostri vini. Nel 1994 la mossa vincente di Albano Zanella, un manager che mi ha insegnato i fondamentali per l’amministrazione di tutto ciò che ruota attorno alla nostra attività: convinse suo figlio Maurizio ad aprire le porte a partner investitori che gli consentissero di completare il progetto Ca’ del Bosco. Venne riconosciuto nella famiglia Marzotto un interlocutore ideale che dal 1994 entrò a far parte della società. Grazie a questo binomio sono stati resi possibili importanti investimenti sia in vigna sia in cantina, con i risultati che oggi sono sotto gli occhi di tutti. In vigna si è passati dai 93 ettari vitati iniziali ai 160 attuali. Anche in cantina, a partire dal 2000, abbiamo iniziato a realizzare progetti di ampliamento, che prevedeva il rifacimento delle intere linee di imbottigliamento e dégorgement. Questo ci diede lo spunto per studiare in modo approfondito i punti critici di queste fasi. Quali? Al dégorgement, come all’imbottigliamento, dovevamo ridurre al minimo lo shock ossidativo causato dall’ossigeno che s’introduce nel collo della bottiglia e dove permane anche dopo la tappatura. Per colpa di questo ossigeno, nel vino si innesca un metabolismo ossidativo che lo avvia rapidamente alla sua fase involutiva. La soluzione più usata, in questi casi, è aggiungere dosi importanti di anidride solforosa e antiossidanti. Sostanze, i solfiti, che non sono certo benefiche per l’organismo se l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha fissato in 50 mg il limite massimo di assunzione giornaliera, per un uomo di 70 kg di peso. Nel nostro laboratorio abbiamo studiato a fondo il problema, riscontrando che la misurazione dell’ossigeno disciolto nel vino, un parametro da tutti utilizzato fino a quel momento per rilevare l’assorbimento di ossigeno nel vino in quella fase, non teneva conto della quantità di ossigeno non disciolto ancora presente allo stato gassoso nello spazio di testa. Nei Franciacorta questa quota è pressochè uguale alla quantità disciolta. Questo significa che l’ossigeno totale presente in bottiglia era pari al doppio di quello disciolto e fino ad allora misurato. Da qui la decisione di trovare una soluzione. Abbiamo effettuato numerosi test, riscontrando che in poco più di un minuto, tra il dégorgement e la tappatura, si introduceva nel collo della bottiglia una quantità variabile di ossigeno pari a 4-8 mg/l, concentrata interamente nello spazio di testa prima della tappatura. Una quantità enorme, ma facilmente giustificabile, visto che il volume dello spazio di testa di una bottiglia di Franciacorta è pari a 25 ml. Dalla nostra sperimentazione è nata una tecnologia, della quale sono titolare del brevetto, che ci ha permesso di effettuare la tappatura al dégorgement in assoluta assenza di ossigeno, riducendo in maniera significativa l’aggiunta di solfiti in questa fase. Abbiamo allora compreso quanto fosse vincente un vino capace di trasmettere non solo una certa espressione aromatica ma anche la massima genuinità e salubrità. Dal 2004 Ca’ del Bosco effettua il dégorgement in assenza di ossigeno e grazie a questa tecnica può vantare un contenuto di solfiti inferiori a 50 mg/l a fronte di un limite massimo previsto dalla normativa europea di 185 mg/l, valori titolati che riportiamo in etichetta lotto per lotto. Questo significa non solo salubrità del vino ma anche una grande longevità: i nostri vini continuano così ad accrescere negli anni la loro espressività aromatica, la loro armonia olfattiva e la loro piacevolezza. Un altro aspetto sul quale avete dedicato molte energie è stata la vinificazione… Consci del fatto che per produrre un grande bianco così come una base per ottenere un grande Franciacorta sono fondamentali le operazioni prefermentative, abbiamo studiato in maniera approfondita le fasi della maturazione dell’uva in campo, la raccolta, il raffreddamento, la movimentazione dei grappoli fino alla pressatura. A partire dal 2008, abbiamo investito grandi risorse fisiche ed economiche in questo progetto, volevamo rivoluzionare il modo di lavorare di chi ricerca l’eccellenza nei vini. Ci siamo resi conto che buona parte dei problemi delle prime fasi della vinificazione derivano banalmente dalle impurità presenti sull’uva raccolta. Come su tutta la frutta, anche sull’acino sono presenti moltissime sostanze più o meno nocive, anche di origine naturale. Prima di tutto le micotossine, prodotte da funghi parassiti che possono costituire la microflora delle uve in raccolta. Paradossalmente, le uve coltivate secondo il metodo biologico sono le più esposte a questo rischio... Sulle bucce dell’uva si possono inoltre trovare gli agenti inquinanti presenti nell’ambiente. Ovviamente sull’uva rimangono i residui dei prodotti antiparassitari. Questa concentrazione, più o meno elevata, di sostanze indesiderate è riducibile con il lavaggio delle uve. Ecco perché abbiamo voluto questa innovazione. Dopo la raccolta a mano e il raffreddamento in cella, le nostre cassette d’uva vengono rovesciate delicatamente. Ha poi luogo una cernita manuale di tutti i grappoli, per togliere tutto quello che non merita di diventare mosto. A questo punto inizia il lavaggio delle uve. Un percorso di tre vasche di ammollo, che prevede il movimento e il galleggiamento dei grappoli per borbottaggio d’aria e, infine, l’asciugatura, affinché il mosto non risulti diluito. Con questo passaggio fondamentale, diamo ulteriore eleganza e genuinità ai nostri vini. L’impianto dà una garanzia assoluta… …che nel mosto e poi nel vino non vi siano residui di nessun tipo. In meno di 5 minuti si riducono di oltre l’80% i residui di metalli pesanti, piombo, rame, zolfo e i residui di antiparassitari utilizzati in vigna. È anche vero che nel corso della vinificazione buona parte degli inquinanti può essere eliminata per sedimentazione, chiarificazione ecc. ma non dimentichiamo nel mosto, tutto ciò che è stato estratto dall’uva è ancora presente, residui compresi. Il vino nasce dalla fermentazione per opera dei lieviti: se questi microrganismi trovano nel mosto, nel succo d’uva, molte di queste sostanze, la loro attività metabolica è disturbata. La presenza di zolfo e solfiti, per esempio, costringe i lieviti, per sopravvivere, a incorporare questi composti, trasformarli in aminoacidi solforati per poi generare ed espellere composti come l’acido solfidrico e i mercaptani, sostanze responsabili dei sentori di cavolo, di aglio, in generale “di ridotto” che percepiamo poi nei vini. Anche la presenza di rame stimola i lieviti nella produzione di queste sostanze. Eliminando questi residui dall’uva, quindi dal mosto, il nostro impianto consente al lievito di lavorare nelle migliori condizioni possibili, esprimendosi al meglio e liberando solo aromi e profumi “puliti”. Quindi niente profumi “ridotti”, niente sfumature inespresse. Dal 2012 il nostro metodo è stato applicato a tutta l’uva vinificata. Grazie a questa tecnologia i nostri vini sono ancora più naturali. A livello di vinificazione possiamo quindi dire di aver raggiunto un traguardo importante nel valorizzare il lavoro in campagna e nell’esprimere al meglio il carattere di ogni suolo e di ogni vigna. Oggi abbiamo 150 vini diversi dalle nostre vigne che esprimono molto bene le potenzialità di quel suolo, di quel terroir. È stato fatto tutto? Siamo orgogliosi di quanto finora è stato svolto: adesso iniziamo a raccontarlo, a raccontare il nostro metodo di lavoro! Nei prossimi anni lo sforzo sarà comprendere appieno le potenzialità di ciascuna vigna, di capire se essa è più idonea a dare un vino fermo o un Franciacorta: destinare al meglio cioè ciascuna uva per produrre il miglior vino possibile. Oggi riusciamo a fare vini − e questo ci va riconosciuto − con una piacevolezza che si conserva negli anni, vini sempre espressivi. Studiare come migliorare l’invecchiamento dei vini è un’altra cosa che ci appassiona e che meriterà in futuro tutta la nostra attenzione. Articolo a firma di Roberto Tognello
Vivere gomito a gomito coi cantinieri per diventare uno chef de cave
Intervista a Stefano Capelli, enologo di Ca' del Bosco
Colui che ha brevettato la tappatura al dégorgement in assenza di ossigeno