Si legge frequentemente, da qualche tempo a questa parte, che il vino è in crisi di consumi in quanto bevanda poco apprezzata dai giovani. Lo scarso interesse sarebbe dovuto principalmente alla scarsa attitudine del vino a fornire esperienze nuove e divertenti.
La comunicazione adottata dalla maggioranza dei produttori, basata sulla origine, sul vitigno, sul territorio, sul paesaggio e sulle tecniche di vinificazione, non sarebbe attrattiva perché incapace di evocare emozioni o momenti di divertimento collettivo e perché richiede conoscenze per essere compresa, quindi uno sforzo per acquisirle, elemento evidentemente contrastante con i momenti di distrazione e divertimento.
Il suggerimento degli esperti è pertanto quello di semplificare gli elementi della comunicazione, privilegiando le informazioni sulle occasioni e le modalità di consumo.
Implicito anche l’invito ad abbandonare i canoni obsoleti della tipicità, adeguando il profilo sensoriale alle esigenze ritenute emergenti.
Tralasciando cosa vorrebbe dire questo per le caratteristiche delle nostre denominazioni più famose, mi limito a interrogarmi sul fatto che questo modello produttivo e di comunicazione sia veramente adatto ad attrarre nuovi consumatori e a valorizzare il lavoro che si fa nelle vigne e nelle cantine del nostro Paese. Associare il consumo del vino esclusivamente a momenti di svago e disimpegno lo relega alla funzione di semplice bevanda alcolica, assolutamente inadatto a rappresentare il ruolo che il vino ha avuto nella evoluzione dell’umanità.
Per millenni il vino ha accompagnato il destino delle popolazioni che vivevano in areali dove si coltivava la vite, delineandone lo stile di vita.
Negli ultimi secoli, quelli a noi più vicini, all’attento studio dei processi fermentativi del mosto si devono invece scoperte che hanno cambiato il corso della storia e creato le condizioni per progressi scientifici fondamentali. Le indagini quantitative sulla fermentazione alcolica ebbero inizio con gli studi di Lavoisier (1789) che dimostrò che nel corso della fermentazione lo zucchero veniva decomposto in alcol e anidride carbonica. La formula della reazione fu poi definita in modo quantitativamente più preciso nel 1810 dal chimico francese Gay-Lussac, il quale però sosteneva la teoria della generazione spontanea. Solo gli studi Pasteur (1866) evidenziarono senza alcun dubbio il ruolo dei lieviti nel produrre la fermentazione, mettendo fine a secoli di illazioni e improbabili teorie sulla rarefazione della materia. La scoperta dei microrganismi, partita quindi dal vino, ha consentito in seguito di mettere a punto le tecniche per isolare gli agenti di molte malattie e di adottare strategie di prevenzione e cura.
Ai nostri tempi il consumatore che sceglie di bere vino non lo fa più per compensare le carenze caloriche di una dieta povera ed è anche informato dei possibili rischi legati al consumo di alcol, ma cerca nel bicchiere le infinite sfumature di profumo e di gusto che derivano dal vitigno, dalla zona geografica, dalla tecnica di vinificazione, dalla maestria del produttore.
In altre parole non cerca l’alcol e i suoi effetti euforizzanti, ma lo tollera perché veicolatore di terpeni, tioli, norisoprenoidi e polifenoli (unanimemente riconosciuti come ottimi antiossidanti).
Il vino che accompagna il cibo è anche testimone di sane abitudini alimentari, che rappresentano i segni distintivi di una cultura millenaria e sempre attuale, identificabile con la dieta mediterranea.
Pertanto, forse il vino non è “cool” e non riesce a fare concorrenza ai cocktail fosforescenti. Certo lo si dovrebbe raccontare meglio per avvicinare maggiormente i giovani. Ma senza banalizzare, perché il vino è, e sarà sempre, la più nobile delle bevande.
Editoriale di VVQ n. 5/2024