Tante parole si sono spese e si continuano a spendere su come sia cambiato nel corso dell’ultimo decennio l’approccio a uno dei lavori più antichi e affascinanti del mondo agricolo, quello di coltivare la vite e produrre vino. Ci sono voluti molti anni di studio e condivisione interdisciplinare fra genetica, fisiologia e agronomia per delineare tecniche adeguate al raggiungimento di obbiettivi quanti-qualitativi diversi per ogni situazione viti-enologica, ma pur sempre legati da un filo conduttore che è la “coltivazione della vite”.
Ora sembra che anche ciò che sino poco tempo fa era dato per scontato, come fondamento delle conoscenze e delle pratiche, non lo sia più.
Il mondo è più veloce, più tecnologico, e bisogna stare al passo con i tempi che corrono. Il clima non è più prevedibile e bisogna adeguarsi di volta in volta all’evento straordinario. Il consumatore esige più informazioni, è più attento, più esperto, vuole essere “coinvolto” e non accetta più “banalità” di routine. L’ambiente chiede pietà, vuole essere “sostenuto” realmente e non solo a parole. In ultimo, il produttore deve sopravvivere a tutte queste sfide, insieme a quella della “burocratizzazione”, e deve anche preoccuparsi di mantenere sempre un bilancio in attivo per poter continuare a fare quello che riteneva il lavoro “più bello del mondo”.
La risposta più comune a queste esigenze è una continua corsa alla digitalizzazione, al reperimento di nuove e più specialistiche informazioni tecniche, al raggiungimento di tracciabilità e certificazione, e alla conquista di finanziamenti, talvolta bizzarri sia nella forma sia nelle finalità, e molto spesso non applicabili perché chi li pensa e li mette a bando non sembra essere capace di dialogare con chi ne ha o ne avrebbe bisogno.
E l’Agronomo?
Che cosa fa l’Agronomo di fronte a questo scenario? Rincorre anch’egli il mondo che cambia, approfondisce, si specializza, cerca un argomento a lui più congeniale e lo studia fino all’impossibile, fino a diventarne un esperto, possibilmente l’unico esperto.
Il problema è che in questo mondo che cambia in maniera veloce e imprevedibile, non è detto che l’esperto di ora, di oggi, sia l’esperto di domani e di dopodomani.
Sorge dunque una domanda: non bisognerebbe forse tornare a essere un po’ come dei “medici di base”? Quelli che, anche avendo una specializzazione, si prendono cura dei processi, dei progetti e dei problemi partendo da una imprescindibile analisi e conoscenza di base, quella relativa alle loro interconnessioni. Quelli che con una visione d’insieme, ampia e multidisciplinare, uniscono l’impiego di conoscenza, osservazione accurata e analisi delle relazioni per riuscire a cogliere i problemi, risolvere gli imprevisti, proporre nuove opportunità e, se è il caso, consigliare il ricorso a esperti e specialisti?
Ma a questo punto mi chiedo: quando non si riesce a dare una risposta, il problema deriva dalla imprevedibilità delle problematiche o da percorsi di studio ed esperienze lavorative troppo specifiche?
Qualora la risposta fosse la seconda, non vedrei altra soluzione, e del resto proprio per la definizione di evento imprevedibile, che tornare ad ampliare quella che definiamo “cultura di base agraria”, e forse non solo agraria.
Editoriale di VVQ n. 8/2024