L’indicazione di ingredienti in etichetta rischia di alimentare la domanda di vini “senza”: fatti dalla natura e non dall’uomo

Il fattore umano

Nell’attesa che si riaccenda l’enoilluminismo

Non chiedere all’oste se il vino è buono. E nemmeno se è naturale. Anche se enoteche e mescite sono luoghi molto più raffinati e affidabili di un tempo è difficile recuperare reputazioni professionali messe in discussione da secoli di proverbi popolari. Se nel caso della qualità l’affidabilità può essere garantita dall’affinamento del sistema della piramide delle denominazioni, nel caso della sostenibilità è invece difficile sfuggire all’autoreferenzialità e alla mancanza di obiettività.
Vendere vini naturali è diventata l’aspirazione che guida l’evoluzione dei moderni centri di aggregazione enoica, ma può essere un’ambizione pericolosa. Naturali non si può scrivere né sulle bottiglie né sugli scaffali, si rischiano sanzioni. La nouvelle vague dei vini senza (no chimica in vigneto, nessun trattamento in cantina) ricorre così a nomi di fantasia: vino etico, artigianale, vero, libero e bello. Marchi privati non legati a schemi di certificazione (solo il biologico lo è).
Chi garantisce? L’oste, l’unico che può spiegare il paradosso (apparente) di vini senza solfiti aggiunti ma che possono contenere solfiti. L’unico che può assicurare al cliente che il vago sentore che avverte è un pregio e non un difetto. L’etichetta non lo smentirà mai. A meno che non cambi la normativa sull’etichettatura del vino.
Bruxelles aveva concesso un anno di tempo per farlo, adeguandosi alle norme degli altri prodotti agroalimentari e il conto alla rovescia è ormai scaduto. I produttori europei, riuniti sotto varie sigle, hanno presentato al Commissario Ue alla Salute una proposta di autoregolamentazione molto light. Ovvero con liste degli ingredienti scarne, senza l’indicazione di additivi e pratiche enologiche. Disinnescata anche la mina delle etichette nutrizionali: ci sorvolano dal cloud, accessibili solo tramite collegamento digitale. Soluzioni non condivise però dalle associazioni dei consumatori (in particolare Beuc) perché, per fare scelte consapevoli e immediate, “gli acquirenti devono trovare tutte le informazioni di cui hanno bisogno sulle etichette”. E ogni ingrediente in più che viene indicato diventerebbe l’occasione per produrre altrettanti vini senza: no solfiti, no coadiuvanti, no... produttori.
Un’accezione, quest’ultima, che in realtà già c’è. L’associazione ViniVeri (ne parliamo da pag. 22 di questo numero) ha ottenuto infatti l’autorizzazione a indicare in etichetta il non utilizzo di prodotti enologici (dall’uva alla bottiglia senza aggiunta di altre sostanze ammesse per uso enologico).
È l’ambizione di chi afferma che è la natura che fa il vino: dei tre veri ingredienti, ovvero uva, territorio e know-how, è proprio la competenza tecnica che rischia di soccombere (l’unica che garantisce un bel numero di lettori a questo giornale, fra l’altro). Il fattore umano naufraga ancora una volta sotto le folate di un rinnovato Sturm und Drang naturalista. Occorre aspettare: in genere dopo la fine del romanticismo torna l’illuminismo e la fiducia nelle capacità dell’uomo. Ma facciamo i conti senza l’oste.

Controcanto

ZUCCHERO SVOLTO
No allo zuccheraggio. La cooperazione italiana rompe il patto di non belligeranza tra Sud e Nord Europa sancito al tavolo di confronto dei produttori Ue. L’aggiunta di saccarosio di bietola, pratica vietata da noi e autorizzata al nord, va indicata come ingrediente. Chi avversa questa scelta ritiene invece che si tratti di una pratica enologica e come tale non vada indicata, perché sarebbe un precedente pericoloso. Il Reg. 1169/2011 definisce come ingrediente qualunque sostanza o prodotto, ancora presente, anche se sotto forma modificata, nel prodotto finito. Lo zucchero aggiunto viene in effetti trasformato in alcol. Quasi tutto: come la mettiamo con il residuo zuccherino?

Editoriale di VVQ 3/2018 - Aprile

Il fattore umano - Ultima modifica: 2018-04-02T15:05:00+02:00 da Lorenzo Tosi

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